PHOTO
Italo Calvino e la moglie Esther Judith Singer (credits Archivio Luce Cinecittà)
Rina. Sofronia. Pamela. Viola. Claudia. Diana. Olivia. Ludmilla. Ma anche Myrna Loy. Marlene Dietrich. Greta Garbo. Jean Harlow. Katherine Hepburn. Marilyn Monroe. Silvana Mangano. Gina Lollobrigida. Monica Vitti. Anita Ekberg. Chiquita. Il gineceo di Italo Calvino è gremito di dive di carta, di celluloide, di carne. Tutte spigliate e conturbanti, sublimate in un ideale di biancheggiante luminescenza.
L’“ostinazione da collezionista” dello scrittore verso quell’Altro che è (e rimarrà sempre) la donna, prima della letteratura, sboccia nell’adolescenza smaniosa e “insoddisfatta” di Sanremo. Italo la trascorre rinchiuso nelle sale cinematografiche per ritagliarsi uno “spazio della mente”, un altrove etereo, dai connotati fiabeschi a carica realistica (Vittorini ci perdonerà). Qui comincia a collezionare un catalogo infinito di dive distanti e irresistibili, nevrili e sfuggenti che lo “spingeva a non accontentarsi di quel poco o molto che si incontrava e a proiettare i propri desideri più in là, nel futuro o nell’altrove”, ricorda nell’Autobiografia di uno spettatore.
Non tanto, evidentemente, le stelline da telefoni bianchi e solo in parte quelle francesi (“vive e insieme fantasmi erotici”): a scintillare (letteralmente) sono le attrici delle commedie americane. Il firmamento in bianco e nero di Hollywood ai suoi occhi diventa un olimpo atemporale, extraterrestre, ingemmato da un erotismo “stilizzato, idealizzato”. E tra tutti i modelli relazionali che la screwball comedy riversa nella polverosa provincia fascista, nell’occhio del cinephile se ne fissa, in particolare, uno: la “donna rivale dell’uomo in risolutezza e ostinazione e spirito e ingegno, in questa lucida padronanza di sé di fronte all’uomo”. Non solo, ma il giovane elegge anche un modello dei modelli che primeggia per intelligenza e ironia: Myrna Loy, “il prototipo forse uxorio, forse sororale, comunque d’identificazione, di gusto, di stile”.
Per questo, le scorpacciate adolescenziali sono improvvisamente tramortite non tanto dall’embargo ai film americani del 1938, ma da un trauma amoroso: “Vidi tutto sino alla morte di Jean Harlow, che molti anni dopo rivissi come morte di Marilyn Monroe, in un’epoca più cosciente della carica nevrotica d’ogni simbolo”.
Ma l’imprimatur resiste alla scomparsa di the Platinum Blonde e dell’America, alla guerra, all’avventura partigiana, alla fuga da Sanremo: nel dopoguerra, la luminescente distanza hollywoodiana si capovolge nella fisicità neorealista di una diciottenne Silvana Mangano. Il giovane cronista de l’Unità, inviato sul set di Riso amaro di De Santis, la inscrive nelle stesse coordinate dell’adolescenza: la Miss Mondariso è “dolce e fiera insieme, occhi scuri e capelli biondi, un incarnato terso e limpido”.
Un po’ come quello della cosmicomica figlia della luna, Diana che sboccerà nell’immaginazione calviniana di lì a breve, e soprattutto di Gina Lollobrigida che irrompe alla Mostra di Venezia del 1954. La romana di Luigi Zampa “abbaglia” (testualmente) Calvino, critico per Cinema Nuovo, per il “biancore appena rosato della pelle”. La Lollo è il “cuore del film, sua ragione prima, lustro e vanto”; un altro prototipo “di una bellezza ‘involontaria’ estatica e innocente”. Non solo contemplazione però, l’attrice merita applausi perché sa replicare cinematicamente, mutatis mutandis, quell’abnegazione pratica verso il mestiere che Calvino aveva ammirato nel maestro Pavese.
Lo scrittore torna al Lido l’anno successivo, quando la Giuria consegna il Leone d’Argento per la regia all’amico Antonioni, ma la trasposizione di Tra donne sole (sempre Pavese) non lo convince. Le stoccate a Le amiche si condensano proprio nel tratteggio del femminino: Eleonora Rossi Drago ha vivificato una Clelia più sfumata, meno problematica, per non parlare della Momina-gatta (Yvonne Furneaux), Calvino se l’aspettava “più acre e aggressiva, con un cinismo più scoperto”.
All’alba degli anni Sessanta, poi, Federico Fellini – via La dolce vita ma anche con Le tentazioni del dottor Antonio del “suo” Boccaccio ‘70 – incastona nell’inconscio calviniano un altro “fantasma dell’aggressività carnale”: Anita Ekberg, deità femminile “gigantesca”. Antonioni, nel frattempo, si “riscatta” consegnandogli un altro modello opalescente, apollineo di femminilità come Monica Vitti, che ne L’avventura, film prediletto del 1960, raccoglie il guanto di sfida del settecentesco Barone Rampante (dato alle stampe neanche tre anni prima). Claudia evolve da voyeur a padrona della relazione, restando fedele a una legge morale a costo di rinunce, fino in fondo, fino al tradimento.
Nel Bildungsroman dell’attrice (e amica) romana, insomma, il signor Palomar scorge una modernità di sguardo e di valori che culmina con L’eclisse, “cinema dell’occhio puro”. Vittoria diventa, infatti, l’unica “depositaria di una verità” contro le vuote convenzioni borghesi e la brutalità urlata tutta maschile della nascente civiltà finanziaria.
Dallo schermo al libro, la stessa predilezione innerva le dive di carta: sorvolando, per brevità, su Rina, Pamela, Sofronia e sulla ragazza “celeste-cielo” dell’Avventura di uno sciatore, la mente corre alla Viola del Barone -biondissima come l’allora amata Elsa De Giorgi, come Greta Garbo, come Jean Harlow, come Marylin, come Anita- “già civetta, vedova e duchessa” la cui ostinazione “amorosa talora si incontrava e si scontrava con quella di Cosimo”.
Stessa ironia e padronanza di sé di Claudia, diva ‘felliniana’ della Nuvola di smog che, sul tramonto degli anni Cinquanta, scuote e (letteralmente) illumina le giornate metropolitane di uno squattrinato e dimesso giornalista comunista con “il balzo ignaro d’un leopardo”. Sarà parente di quello di Susanna dell’adorato Howard Hawks?
Come non ricordare, poi, le blandizie oniriche che attraversano le Città Invisibili, femminili sin dal nome e tutte percorse da una “vibrazione lussuriosa”? Anche la Olivia messicana di Sotto il sole giaguaro, poi, tiene “in una posizione subalterna, come d’una presenza necessaria sì, ma sottomessa” il co-protagonista maschile, un po’ come Ludmilla, Lettrice boccolosa (come Myrna Loy) di Se una notte d’inverno, sin da subito padrona del discorso amoroso, il (vero) viaggio nei viaggi del Lettore, fino all’esibito happy ending dell’iper-romanzo e, non a caso, del cinema americano classico.
Distanza e presenza amorosa. Adolescenza e maturità. Sanremo, Parigi o Venezia. La cinefilia calviniana rimarrà sempre legata alle donne: lo conferma lui stesso, ormai cinquantasettenne celebre scrittore, giurato alla Mostra del 1981: “Al cinema vado con mia moglie, è lei che mi ci porta, io invece rimanderei, rimanderei sempre”.