PHOTO
Il cavaliere inesistente
Quando eravamo re, il cinema italiano arruolava gli scrittori più in voga per firmare soggetti e sceneggiature. A parte Ennio Flaiano, Mario Soldati e Pier Paolo Pasolini, casi particolari per la nota rilevanza dei loro contributi per il grande schermo, non è raro trovare, nei titoli di testa dei film degli anni Cinquanta e Sessanta, nomi come Alberto Moravia, Giorgio Bassani, Raffaele La Capria, Ercole Patti, Giuseppe Berto. La faccenda ha poco di romantico: questi autori non consideravano la scrittura per il cinema qualcosa di particolarmente nobile, ma erano ben consapevoli che garantiva quelle entrate necessarie per vivere senza preoccupazioni, dedicandosi ai nuovi libri. Certo, ci sono alcune magnifiche assenze, come Elsa Morante, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg.
E poi c’è lo strano caso di Italo Calvino, un autore che con il cinema ha avuto un rapporto rarefatto, esplicitato in poche occasioni, sfumato in altre, in definitiva poco valorizzato in un’epoca florida per la nostra industria. Un’epoca in cui, peraltro, gli scrittori venivano scelti per presiedere le giurie dei festival cinematografici: Venezia, per esempio, chiamò Eugenio Montale nel 1953, Ignazio Silone un anno dopo, Moravia nel ’67 e lo stesso Calvino nell’81 (assegnò il Leone d’Oro ad Anni di piombo). E al fascino del cinema, Calvino – come dimostrano le recensioni e i saggi – non era affatto immune. Allora cos’è che non ha funzionato?
Da una parte, notiamo come il nome di Calvino appaia raramente come soggettista o sceneggiatore, essenzialmente quando viene coinvolto per curare le trasposizioni di suoi racconti. Dall’altra, è curioso rilevare il disinteresse (leggi: la paura) dei cineasti verso l’opera dello scrittore italiano forse più determinante e influente del secondo Novecento.
Nessun film tratto da Il sentiero dei nidi di ragno, il folgorante esordio che raccontava la guerra partigiana attraverso lo sguardo di un bambino, stranamente trascurato anche dal filone resistenziale dei primi anni Sessanta. Ignorati La speculazione edilizia e La giornata d’uno scrutatore, romanzi brevi perfetti per scandagliare il lato oscuro del benessere economico e le contraddizioni dell’impegno politico. E lo stesso discorso vale per testi spesso teorici come Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore e Palomar, forse traducibili solo da cineasti visionari ma comunque rimasti fuori dagli interessi di un sistema che da sempre adatta qualsiasi fonte letteraria.
Non è un caso che Il cavaliere inesistente, il terzo capitolo de I nostri antenati, la trilogia araldica che comprende Il visconte dimezzato e Il barone rampante (di quest’ultimo però è stata annunciata una serie, prodotta da Lorenzo Mieli dopo anni di trattative), nonché l’unico romanzo di Calvino ad aver avuto una versione per il grande schermo, sia stato trasposto da un maestro dell’animazione, Pino Zac, in un eccentrico film a tecnica mista.
È ispirato alla novella L’avventura di due sposi (1958), Renzo e Luciana di Mario Monicelli, l’episodio meno glamorous tra i quattro di Boccaccio ’70 (1962), in cui Calvino è accreditato come sceneggiatore insieme a Giovanni Arpino, Suso Cecchi D’Amico e Monicelli. È la parabola kafkiana di una coppietta che non può vivere in pace perché economicamente instabile: Calvino lo si ritrova per la straniante rappresentazione delle nuove ritualità di massa del proletariato, la mutazione progressiva della periferia invasa dai simulacri della pubblicità, il ritratto di una donna al lavoro lontana anni luce dagli stereotipi.
Da un altro racconto, L’avventura di un soldato (1949), è esplicitamente tratto l’omonimo episodio inserito in L’amore difficile (1963), debutto alla regia di Nino Manfredi, un piccolo capolavoro muto dove i protagonisti assoluti sono gli sguardi e i gesti. Racconta l’incontro in treno tra un soldatino, che sta tornando a casa in licenza, e una vedova: i due non si scambiano una parola ma, come spiega – con altre parole – Erica Young in Paura di volare , assistiamo a una vera e propria esplosione erotica. Più dei romanzi sono i racconti a essere le fonti privilegiate per gli adattamenti: sei delle venti novelle di Marcovaldo (1963) diventano uno sceneggiato RAI (1970) diretto da Giuseppe Benati, con Nanni Loy nel ruolo titolare. Tra il 1972 e il ’73, Carlo Di Carlo realizza due film brevi per la televisione tedesca, L’inseguimento (dalla raccolta Ti con zero del 1967) e L’avventura di un lettore (1958), mentre nel 1983 Francesco Maselli realizza L’avventura di un fotografo, dalla novella del 1955.
Il monumentale Fiabe italiane (1956), che recupera le storie delle tradizioni orali regionali, è alla base dell’omonimo film di Lorenzo Andreaggi, che non ha avuto una distribuzione ufficiale. Caso anomalo è quello di Ti-Koyo e il suo pescecane di Folco Quilici, dal romanzo di Clement Richer che Calvino riscrisse per il cinema (sui titoli di testa c’è l’ambiguo credito “da un racconto di Italo Calvino”). D’altro canto, è ancor più interessante ritrovare Calvino come fonte ufficiosa e non ufficiale, un riferimento suggestivo solo a volte dichiarato dagli sceneggiatori. È noto che I soliti ignoti (1958) deve qualcosa a Furto in una pasticceria (1947), novella ripresa insieme a Letto di passaggio (1949) e Desiderio in novembre (1949) anche da Alan Taylor per Palookaville (1995), commedia crime prodotta da Uberto Pasolini.
E così Fantaghirò, franchise televisivo creato da Gianni Romoli e Lamberto Bava nel 1991, ha all’origine una delle riscritture delle Fiabe italiane. Finora l’incontro tra Calvino e l’audovisivo sembra un’occasione mancata. Magari l’annunciata serie tratta dal Barone rampante cambierà le carte in tavola, ma, parafrasando una sua famosa raccolta, potremmo dire che, per il cinema italiano, Calvino è e resta davvero un autore difficile.