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Non le manda a dire Wilma Labate: “Il fascismo non è morto, vive sotto mentite spoglie”. Gli anticorpi? “Avrebbe dovuto trovarli la sinistra, ma è in vacanza dal pensiero da troppo tempo”. Il cinema? “È diventato una catena di montaggio”.
Niente di più sacrilego per una filmaker che da trent’anni (il suo primo lungometraggio, Ambrogio, è del 1992) vive sulle barricate di una carriera coerente e scomoda, battagliera e libera. Un percorso all’insegna dell’impegno politico e alla questione femminile, di cui il suo ultimo lavoro, Quei due, costituisce un tassello organico.
Un lavoro capace “di restituire la brutalità del fascismo attraverso uno sguardo interno, la storia di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, ovvero due fascisti che finiscono per essere vittime della macchina del regime che loro stessi avevano alimentato”, si legge nella motivazione con cui la giuria del sindacato critici lo ha decretato il migliore dei lungometraggi in concorso al Tertio Millennio Film Fest (dal quale ha avuto anche la menzione speciale della giuria principale, capitanata da Susanna Nicchiarelli).
Una bella soddisfazione.
“Una gioia. Spero sia un buon viatico per il film, in attesa del suo approdo in sala.”
Segno che intorno al fascismo sta tornando forte l’interesse, come attesta la coeva lavorazione della serie tratta da M. Il figlio del secolo di Scurati.
“Mi stupirebbe il contrario. Il Ventennio non è finito lì. Il virus del fascismo si è propagato anche dopo la fine della guerra”.
Fino ad oggi?
“Ne intravedo alcuni aspetti quando si criminalizzano le ONG ad esempio. O quando si mette in discussione il salvataggio di un naufrago. La legge del mare è antica quanto il mare, non si può rinnegare”.
L’obiezione è che si tratta di migranti economici, non di naufraghi.
“Quando si inizia a distinguere, a creare tassonomie, di pelle, di religione, di età, di sesso, tra i disperati, siamo già un passo verso l’abisso. Riporta alla memoria momenti bui della nostra Storia”.
Torniamo a quella storia allora: Quei due rievoca una vicenda privata, l’amore tra Edda Mussolini e Galeazzo Ciano.
“C’è molto di più. Studiando l’enorme archivio che il Ventennio ci ha lasciato, un archivio molto ricco, persino bello, capisci cose che normalmente si ignorano. A me ha colpito in particolare come emerga forte la relazione tra padre e figlia, che è in realtà un rapporto femmina-padre padrone. Questo dato, che emerge con chiarezza dall’analisi dal materiale, spiega la forma mentis della figlia con l’influenza potente del padre. Un condizionamento sconvolgente. Lei si è innamorata di Galeazzo per compiacere Benito Mussolini, perché riteneva che quello fosse l’uomo giusto per lui prima ancora che per sé stessa. Certo, qui il padre rappresenta il Potere. Ma Quei due parla di tutte le donne nel loro rapporto col padre e del modo in cui determina il futuro relazionarsi con il maschio”.
Edda però amava realmente Galeazzo.
“Vero. Ed è stata anche una donna anche moderna con delle rigidità di cui non si è mai del tutto liberata”.
Anche quando si sente tradita da Benito Mussolini?
“Non possiamo sapere se quel trauma, il tradimento dell’amato padre che ha determinato l’uccisione del suo compagno, l’abbia portato a rinnegare Mussolini e tutto quello che aveva rappresentato. Sicuramente la storia di Edda è tragica, la costringe a venire fuori a un certo punto. Ma a differenza di Galeazzo, non fa delle scelte nette. Rimane fedele alla sua visione e non condivide alcune uscite del marito”.
Galeazzo non è un personaggio simpatico, ma è sicuramente una figura interessante.
“Galeazzo è la maschera di quell’Italia che, dopo essersi buttata a capofitto nell’avventura fascista, ne ha preso le distanze a un palmo dal precipizio. Un’Italia moderata e vile. Che però ha avuto una sua utilità quando si è accorta del baratro in cui il fascismo la stava sprofondando. Fa un passettino indietro. Forse è troppo poco ma lo ha fatto almeno”.
Lui non è sopravvissuto, quell’Italia sì.
“E con lei i germi di quel Ventennio. Non c’è stato, contrariamente a quanto accaduto nella Germania nazista, un verdetto netto di condanna. Una presa di coscienza. In Italia molti si sono potuti dissociare attribuendo ogni responsabilità a Mussolini e ai fascisti della prima ora. Le complicità sono state condonate. Ma le ambiguità sono rimaste e hanno continuato a circolare”.
Tra le donne di Mussolini, continua a rimane nell’ombra la moglie fedele, Rachele.
“Rachele è una figura misteriosa: non si esprime, non prende posizione, resta sempre dietro il marito. È raccontata pochissimo dalla storia, dalla letteratura, dal cinema".
Forse c’è poco da raccontare.
“Nell’archivio non c’è: ho trovato un’immagine, di quando sono a Ischia lei e i figli, un’immagine molto dolce, e l’ho montata. C’è un’altra immagine di Rachele al funerale del padre di Ciano, funerale in grande stile, dove si presenta con un velo nero davanti al volto. Non si vede. Lei rappresenta l’idea che allora si aveva della moglie. Un ruolo che ha ricoperto con estrema serietà: ha tollerato tradimenti, assenze dal marito, il suo disastro storico. Una vita nell’ombra. Edda è molto diversa”.
Quanto è stato complicato il lavoro d’archivio?
“Ho avuto la fortuna di avere con me una persona che aveva già fatto gran parte delle ricerche, Beppe Atene, uno storico. Grazie a lui ho potuto fare una bella scrematura dei diari di Galeazzo Ciano. Edda invece l’abbiamo ricavata dalla lunga intervista a Nicola Caracciolo. Abbiamo mantenuto le loro parole mettendole insieme in modo da formare un disegno compiuto, un racconto”.
Parole che nel film diventano scena e messa in scena.
“Sono il racconto. Ho cercato di asciugare il più possibile la messa in forma per far venire fuori la contaminazione tra passato e presente. Volevo proporre qualcosa in cui lo spettatore di oggi potesse entrare senza il filtro della ricostruzione d’epoca. Ad esempio, lavorando sulla scenografia: la quinta rimanda al passato, la fotografia invece è moderna. Daniele Ciprì ha fatto un lavoro prezioso. È un mago. Ha donato al film una luce antica e insieme contemporanea".
Attualizzare il fascismo: è una lettura corretta?
“C’è uno zoccolo duro che non vuole sparire. Ogni tanto torna fuori in modo inaspettato. Sarà un atteggiamento di difesa dalla globalizzazione, un tentativo orwelliano. Ciascuno si difende come può da questo appiattimento generale: o cercando di affermare la propria supremazia sull’altro o coltivando il rimpianto per un’epoca che non c’è più, in cui si era qualcosa, qualcuno.”
Come ci si protegge altrimenti dalla cultura dell’indistinto, dalla globalizzazione?
“Per salvarci da un mondo che ci mercifica l’unica cosa che si può fare è sentirsi umani. Non è la distinzione, il chiudersi in tribù, che ci salverà. Ma non vedo molte proposte in tal senso.”
Nemmeno a sinistra?
“Mi considero ancora una donna di sinistra ma non mi identifico con quello che la sinistra è diventata. Il progressismo che si è affermato dopo la caduta del Muro di Berlino ha abbracciato del tutto la globalizzazione e la sua ideologia liberista. Non è andata nemmeno in trincea, si è ritirata lasciando enormi spazi vuoti, che qualcun altro ha occupato. Questo è imperdonabile.”
Chi sono i tuoi punti di riferimento, se ne hai?
“Mi identifico di più con Papa Francesco: mi piace quello che dice, leggo volentieri i suoi libri. Il problema è che non diventa ancora offerta politica. Spero realmente lo diventi, è l’unico che dice qualcosa di sinistra, come diceva Moretti a D’Alema.”
E gli intellettuali?
“Sono anni che non li sentiamo più. Non si espongono, non si esprimono più. Sarà che non hanno nulla da dire?”
Il cinema invece ha ancora qualcosa da dire?
“In un momento di crisi come questo, il pensiero è vivace, stimolante, battagliero: il cinema non può non essere vivo.”
Sembrerebbe di no. O almeno non lo si vede.
“Abbiamo di fronte un’offerta spaventosa di immagini ma non abbiamo un pensiero all’altezza. Anche sul lato della domanda le cose non vanno meglio. Faccio un esempio: se devo vedere qualcosa su Netflix, io mi perdo. Ci metto venti minuti solo per avere il quadro di tutte le possibilità. Poi mi stanco e lascio perdere. L’offerta è debordante rispetto alla nostra capacità di vagliare, di scegliere. E io sono una bulimica dell’immagine. Pensa a un pubblico normale, come fa?”
Ma le piattaforme, a differenza delle tv generaliste, non restituivano il potere di scelta allo spettatore?
“È l’offerta che sceglie te. Ti toglie tempo e potere. Troppa roba e indistinta. È come quando vai in quei ristoranti con i menù chilometrici. Alla fine, ti arrendi e chiedi al cameriere: ‘mi consigli lei’.”
Non può essere solo colpa delle piattaforme.
“Non voglio demonizzarle. Danno tantissimo lavoro e alcune cose che fanno sono veramente belle. Però siamo pagati molto meno, le donne specialmente. Stiamo tornando al fordismo, a una catena di montaggio del lavoro creativo. Tutti ammucchiati, ciascuno con il proprio compito da svolgere. Ritmi forsennati, checché ne dica Marco Bellocchio quando afferma che non è necessario fare tutto velocemente. Ha ragione, per carità. Dovremmo riservarci un po’ di tempo per pensare creativamente. Ma stiamo parlando di Bellocchio. A un giovane regista o sceneggiatore non viene concesso nulla. Oltre al fatto che sono pagati in modo mortificante. Salvo poi demonizzarli se il lavoro viene male. “
Avreste bisogno di un sindacato.
“Ci sarebbe pure come anche molte associazioni di cinema, ma non fanno squadra. Ci vorrebbe un’unica sigla che riunisca tutti coloro che fanno cinema, sceneggiatori e registi. Una volta c’era la figura dell’autore che era sia sceneggiatore che regista. Gli Age e Scarpelli, i Sonego, i Tonino Guerra: erano considerati autori con la A maiuscola. Oggi questa definizione è messa in crisi anche all’interno delle associazioni, è considerata obsoleta. È un fenomeno che riguarda anche i registi, se pensiamo ad esempio alla serialità. Non hanno la libertà di scegliere nemmeno il cast, le location o i tempi dei loro film. Sono aspetti che andrebbero tutelati. Ecco perché ci vorrebbe un sindacato. Ma perché nasca un soggetto di questo tipo bisognerebbe tornare a parlarsi, a confrontarsi, senza che la parola e il pensiero vengano considerati, come ormai si fa, perdite di tempo improduttive.”
La crisi della categoria dell’autore ne sottintende un’altra, quella dello sguardo?
“Il meccanismo della catena di montaggio impatta a tutti i livelli di creatività coinvolti nella produzione cinematografica, proposta di sguardo compresa.”
Che ne pensi della figura dello showrunner. Non ha rimpiazzato quella dell’autore?
“Personalmente ho un pizzico di diffidenza nei confronti di questa figura: ho paura che lo showrunner sia un tappo alla libertà. Sia un altro padrone, che rappresenta gli interessi della produzione. Sono d’accordo di riconoscere allo showrunner il merito anche economico delle idee, ma non comprendo fino in fondo la natura dei rapporti tra queste figure e gli altri creativi coinvolti nella lavorazione, a partire dai registi. “
Capitolo botteghino. Sembra che ci si debba rassegnare in futuro a una perdita definitiva del suo valore in Italia del 30-40 per cento.
“Un dramma.”
Del resto, le piattaforme che fanno capo ai grandi studios, come Disney Plus, si stanno sempre più orientando verso un’offerta domestica. Risultato: abbiamo sale oggi in cui l’offerta prevalente è quella del cinema d’autore.
“Non è positivo. Ci vuole una varietà di offerta. Oltre al fatto che tutti questi film rischiano di cannibalizzarsi a vicenda, potrebbero col tempo trasformare lo spettacolo in sala in un fenomeno elitario. Il mercato, pesantemente colpito dal covid, è troppo asfittico. Mancano i film per bambini, ad esempio. E anche il grande blockbuster americano inizia a vedersi di meno. È un paradosso: oggi si produce di più ma l’offerta in sala è più povera”