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Stefano Nazzi (Webphoto)
Ogni mese, il primo giorno del mese, c’è un appuntamento attesissimo da milioni di ascoltatori: esce la nuova puntata di Indagini, il podcast de Il Post che ha rivoluzionato il racconto della cronaca nera. Autore e narratore è Stefano Nazzi, che, come spiega nell’introduzione ormai di culto, fa “il giornalista da tanti anni” e nel corso della sua carriera si è occupato di tante storie, “quelle che nel tempo vi sono diventate familiari e altre che potreste non aver mai sentito nominare”.
Indagini parte nell’aprile 2022, con due episodi al mese per raccontare un fatto di cronaca nera: oggi è uno dei podcast più ascoltati d’Italia e, agli Italian Podcast Awards, ha vinto due premi: podcast dell’anno e miglior podcast della categoria True Crime. Nazzi, che ha appena pubblicato il volume Il volto del male. Storie di efferati assassini (Mondadori), sarà ospite venerdì 7 luglio della quarta edizione del Lecco Film Fest, il festival organizzato da Fondazione Ente dello Spettacolo e promosso da Confindustria Lecco e Sondrio, in programma dal 5 al 9 luglio (qui per il programma), intitolato quest’anno “Ridestare lo stupore”.
Ma, dopo tanti anni sul campo, c’è ancora qualcosa che la stupisce?
La capacità di alcuni uomini e di alcune donne di fare del male ad altre persone senza che ci sia una ragione. Il superamento del confine, una cosa che riguarda tutti gli omicidi volontari. E mi stupisce la cattiveria. Che ha sempre a che fare con la stupidità. Perché ciò che mi sembra più inspiegabile è proprio la stupidità di chi commette un omicidio.
Perché un podcast?
L’idea nasce insieme a Francesco Costa, che all’epoca era responsabile podcast de Il Post. Penso sia lo strumento più adatto al racconto dell’attualità, specialmente in un’epoca dominata da immagini che distolgono l’attenzione sui fatti. Il nostro desiderio è ritornare all’essenza del linguaggi o. Per me, poi, è un continuo esercizio di scrittura: la costruzione di frasi brevi, il dovere della chiarezza, i rimandi nel discorso per non far perdere il filo.
Gli italiani sono da sempre appassionati di cronaca nera, un genere che, tuttavia, viene spesso offerto con morbosità e sensazionalismi. Lei, per esperienza e autorevolezza, va controcorrente e sceglie la sobrietà, il rigore, la misura. Come si arriva a questo stile?
Ci si arriva sperimentando modi diversi di fare cronaca. Mi sembra che il racconto dell’attualità sia troppo spettacolarizzato e lontano dall’essenza delle cose, come se si fosse sempre su un set televisivo. Tornare all’essenza vuol dire anche restituire i fatti senza pregiudizi né giudizi, evitando concessioni all’emozionalità e la trappola della morbosità. D’altronde, i grandi del passato che si sono occupati di cronaca nera non si sono mai lasciati andare al voyeurismo, da Giorgio Bocca a Dino Buzzati fino a Truman Capote.
Il titolo di ogni puntata di Indagini è sempre evocativo: la data dell’omicidio e il luogo in cui è avvenuto. Cosa aggiunge, quest’ultimo elemento, al racconto?
Il contesto geografico è importante, certo. Ma abbiamo scelto questo schema per riallacciarci al lancio d’agenzia, secco ed essenziale. E volevamo evitare quei titoli sempre uguali che leggiamo sui giornali, così simili a quelli cinematografici: il mostro, lo strangolatore, il boia… Mettere in campo la figura del mostro ci allontana dal reato. Invece il male fa parte del mondo. E della nostra vita.
Il suo podcast parla anche del modo in cui i media e la società hanno influenzato le indagini. Com’è cambiato il ruolo dei mass media?
I media amplificano. In base a questo, quasi come un automatismo, diamo ai fatti di nera una rilevanza enorme, più grande di quello che dicono i dati. E ci sentiamo in pericolo. Per fortuna chi commette reati del genere fa parte di una minoranza molto marginale. Dobbiamo sempre fare i conti con i dati.
E quali sono?
Nel 1991 si sono registrati poco meno di duemila omicidi, nel 2021 sono stati 303: un calo dell’80%. Eppure, la gente percepisce il contrario. Nell’ultimo anno, a Milano, una città narrata dai media come una polveriera, ci sono stati circa venti omicidi, in altre città europee come Bruxelles e Parigi più di cento. C’è una differenza tra la sicurezza percepita e quella reale. I fatti sono che la sicurezza è migliorata, anche grazie all’evoluzione delle tecnologie, e che la criminalità organizzata è cambiata perché uccide di meno e si dedica sempre più ad affari semi-puliti.
Indagini è anche un racconto dei cambiamenti dell’Italia degli ultimi quarant’anni. Il caso più indietro nel tempo è l’unico che non riguarda un omicidio, l’arresto di Enzo Tortora nel 1983. Quello più recente, l’assassinio di Marco Vannini a Ladispoli nel 2015. Che idea si è fatto della dimensione criminale di Paese?
Che non sono cambiati i delitti in famiglia e quelli passionali. Ogni volta che accade un omicidio, i primi indiziati sono sempre all’interno della famiglia: in molte occasioni si tratta della pista giusta. È una tendenza dovuta a fattori culturali, perché in larga parte siamo un popolo abituato a mettere la polvere sotto il tappeto, restio a affidarsi alle istituzioni e ai servizi sociali, convinto che le cose che avvengono tra le quattro mura domestiche debbano restare lì. Un caso come quello di Cogne, con tutto ciò che implica, è uno spartiacque: c’è l’Italia che si divide sulla figura di una madre che per definizione non può uccidere il figlio. E c’è la televisione che racconta ossessivamente il fatto e si presta a farsi usare nell’ambito di una strategia difensiva che non si era mai vista così.
Il suo sguardo è stato influenzato dal cinema?
Ci sono autori che mi piacciono molto, Indagini è scritto come una sceneggiatura, ma non penso di essere stato influenzato. Penso che nessuno racconti la criminalità come Martin Scorsese e che Il silenzio degli innocenti sia un grande thriller. Ma sono anche convinto che il racconto di questi assassini esista solo nella fiction: laddove vengono descritti come geniali, nella realtà sono invece drammaticamente stupidi. Il problema è che, se i cineasti dovessero raccontare la realtà così com’è, il risultato sarebbe piuttosto squallido. È evidente la necessità di romanzare.
Altri esempi?
Romanzo criminale, prima libro, poi film, infine serie, è bellissimo. Ma lo dichiara subito l’autore del testo originario, Giancarlo De Cataldo: il romanzo non è una cronaca. Eppure ormai si tende a identificare la storia ufficiale della cosiddetta Banda della Magliana con quella romanzata. E così quello che in verità non era un corpo unico, ma un aggregato di più bande, finisce per sovrapporsi a quel gruppo di personaggi. Lo stesso accade con Vallanzasca – Gli angeli del male: Renato Vallanzasca è molto diverso da come è descritto nel film, che assorbe le leggende che lui stesso ha diffuso, come l’iniezione di uova marce per uscire dal carcere. Ma questa cosa accade anche altrove, penso a Nemico pubblico con Vincent Cassel: viene descritto come un romantico, in realtà era una bestia.
Tutto è raccontabile?
Dovrebbe, ma al momento non riesco ancora ad avvicinarmi al delitto di Desirée Piovanelli, una quindicenne che nel 2002 fu uccisa da due coetanei guidati da un adulto, Giovanni Erra. È una storia agghiacciante che non so come raccontare, perché c’è di mezzo un uomo che non solo ha ammazzato una ragazzina ma ha anche rovinato le vite di altre due persone.
Alla fine cosa resta?
I fatti. Il fatto in sé è quello che conta. E il dolore. Che i motivi degli assassini siano incomprensibili ci rassicura. Noi non siamo così, pensiamo. La “mostrificazione” dell’assassino è un modo per allontanarci dagli abissi e metterci al riparo. In realtà noi, al riparo, ci siamo davvero, perché la maggioranza delle persone detiene un’umanità (ma anche la razionalità) che le impedisce di commettere omicidi. Chi ammazza qualcuno non ha alcuna empatia, ha un solo obiettivo: sopraffare.