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Roman Polanski e Ryszard Horowitz in Hometwon (Credits: Robert Słuszniak)
Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo del 2001, è stato salvato da piccolo dai nazisti ed è giunto in Inghilterra con i Kindertransport, i treni che trasportavano i bambini ebrei dall’Europa Centrale alla Gran Bretagna. Del proprio passato possiede solo il cognome. Quello scritto da Winfried Sebald è il racconto di una ricerca mnemonica: i pochi ricordi infantili compaiono all’improvviso, per associazione, sparpagliati. Sono i luoghi a risvegliarli, quelli che Pierre Nora definiva “lieux de Mémoire”: luoghi di memoria.
L’esperienza di Ryszard Horowitz, fotografo di fama mondiale, è molto simile: deportato ad Auschwitz nel 1944 e liberato grazie alla lista di Schindler quando aveva appena cinque anni. Il più giovane tra i sopravvissuti. Fare ordine tra i ricordi per lui è complicato, anche quando questi sono condivisi con il regista Roman Polanski. I due hanno passato l’infanzia a Cracovia, prima nel ghetto, poi al liceo.
I registi polacchi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, nel documentario Hometown – La strada dei ricordi del 2021, uscito in Italia in occasione del Giorno della Memoria, li hanno fatti rincontrare nella loro città, dopo che non ci tornavano da oltre cinquant’anni.
«È accaduto tutto per telefono all’inizio, Mateusz e Anna mi hanno chiamato e io, poco convinto, ho risposto: "ok, è un'idea interessante". Poi mi ha telefonato anche Roman dicendomi: ‘Ascolta, ho incontrato questi giovani registi, e penso siano bravi. Sai, ci vogliono insieme per un’intervista. Se lo fai tu, lo farò anch’io’. Allora ho accettato» ci racconta Ryszard dal suo studio di New York. È un lunedì mattina soleggiato, ma lui assicura che nella Grande Mela fa troppo freddo e vorrebbe essere a Milano.
Quali erano i suoi dubbi quando ha accettato di partecipare al progetto?
Il fatto che fosse spaventoso rievocare un così terribile argomento. Lì ho perso completamente la mia prima infanzia. Non c’era nulla di pianificato, non c’era un copione. Era tutto un azzardo e a me e Roman non piace parlare troppo dell'argomento. Abbiamo però deciso di provarci, raccontando le nostre storie, come si dice, con le pinze e con ironia. Ho pensato, con Roman, che sarebbe stato interessante far emergere i nostri ricordi senza prima discuterne, anche solo per vedere se ci venissero in mente in modo simile. I registi stessi poi si sono assicurati che non ne parlassimo prima tra di noi. Non c’era una sceneggiatura, tranne per il fatto che alcuni luoghi del documentario erano prestabiliti. Saremmo dovuti andare semplicemente con i nostri sentimenti. Beh, ero un po' perplesso e impaurito perché non sapevo come sarebbe potuta andare, né cosa sarebbe successo.
Uno degli argomenti principali è la sua amicizia con Polanski. Nel film Roman dice che il suo primo ricordo è legato a lei che si rifiuta si bere la cioccolata calda.
Roman è pieno di storie di questo tipo (ride n.d.r.). Ama questa storia e adora parlare con le persone di quanto fossi viziato. Non so tra l’altro come mia madre riuscisse a procurarsi la cioccolata. Anche i miei genitori ne parlavano comunque, quindi suppongo che sia andata esattamente come lo ricorda lui. Oppure anche loro, come me, a forza di riascoltarla, si sono convinti che sia vera. Sai, potrei anche scegliere anch’io alcuni momenti della sua infanzia in cui si comportava male. Eravamo molto simili. E ammettiamolo, eravamo dei piccoli animali dopo la guerra.
Lei e Roman siete prima stati separati dalla guerra e poi dalla carriera, ma siete sempre rimasti legati.
Sì. Roman ha avuto un’infanzia tragica, ha perso sua madre e suo padre è finito nel campo di concentramento di Mauthausen in Germania insieme a mio padre. Quando fui liberato ad Auschwitz dall'Armata Rossa russa il 27 gennaio 1945, fui portato in un orfanotrofio perché non sapevano se i miei genitori fossero vivi. E da lì fui prelevato dalla zia di Roman che mi ha portato nel suo appartamento a Cracovia. Roman era già lì. Poi nel maggio del '45 quando mia madre, mia sorella e mio padre erano stati tutti liberati, ci siamo spostati tutti in questo appartamento nella piazza centrale della città che si vede nel film dove spesso ci faceva visita Roman. Mia madre l’ha aiutato molto e lui ha aiutato e ispirato anche me. Per esempio, lui scelse il liceo artistico e pochi giorni dopo l'ho seguito anch’io. È un’amicizia che poi è proseguita nonostante la distanza, alla fine degli anni Cinquanta lui si trasferì e io invece rimasi in Polonia. Non l'ho visto più visto fino al 1961, all'apertura del primo New York Film Festival. Poi ci siamo visti un po’ dappertutto in giro per il mondo: Cina, Londra, Parigi, Stati Uniti. Ma mai a Cracovia, almeno prima di questo documentario.
C'è una scena che mi ha colpito: il momento in cui lei e Roman tornate nell’appartamento che ha appena nominato. È una delle pochissime scene in cui sembra sopraffatto dalle emozioni. Cosa rappresenta per lei quel luogo?
Ho trascorso diversi anni lì con i miei genitori. Per me mia madre è ancora lì, ferma alla finestra, sempre in mia attesa o in attesa di mio padre o mia sorella. E io, ogni volta che mi immagino la facciata dell'edificio, alzo lo sguardo fino al terzo piano. La vedo sempre lì. Io e Roman in quell’appartamento giocavamo e facevamo di tutto. Ho molti ricordi legati a questo posto. È proprio nel centro della città. Roman sostiene che è diventato una Disneyland piena di turisti, ombrelli e caffetterie. A quel tempo, invece, era vuoto e senza traffico. Potevo dormire persino con la finestra aperta, oggi sarebbe impossibile.
Nel documentario lei dice infatti che tornare a Cracovia ha cambiato la sua percezione romantica della città.
Sì, soprattutto proprio il nostro appartamento è stata una grande delusione. Me lo ricordavo molto più grande: prima occupava l'intero piano dell'edificio, ora invece è suddiviso in tre parti. Poi il bagno dove ci divertivamo con le fotografie - la nostra camera oscura - è stato diviso a metà ed è irriconoscibile. Inoltre, la mia cameretta è stata murata. Quindi non so se sia stata una buona idea, visitarlo. A volte è meglio mantenere i ricordi così come sono.
Prima di entrare nell’appartamento lei sussurra a Roman una cosa: “ho paura”. La paura di ricordare e rivedere determinati posti è un filo conduttore del documentario, anche quando i luoghi sono collegati a ricordi felici.
È una contraddizione. Uno vorrebbe rivedere quei luoghi per riviverli così come sono fissati nella sua memoria, ma spesso non si rende conto che i ricordi sono legati indissolubilmente alle persone, a qualcuno che magari non c’è più. E questa è la cosa più triste: le persone che non ci sono più. Quell’appartamento è un luogo pieno di fantasmi.
Lei e Roman dopo la guerra non avete mai parlato del vostro passato doloroso. La scena del film in cui gli mostra il suo tatuaggio di Auschwitz è stata la seconda volta in cui gliel’ha fatto vedere. Cosa significa vivere con quel tatuaggio da quando si è piccoli?
Quel numero sul braccio è l'unica cosa tangibile che mi ricorda che tutto ciò che mi è capitato è successo realmente. È davvero difficile da comprendere questa cosa, come è possibile che sia sopravvissuto. Non ero che un bambino di cinque anni. Quando ci ripenso mi sento schiacciato. La cosa che mi sconvolge di più è guardare i miei nipoti che hanno l'età che avevo io in quel momento: è impossibile capire come una cosa così piccola possa sopravvivere a tutto quell’orrore. Spesso mi chiedo come e cosa mangiassi ad Auschwitz, cosa facessi. Con i miei genitori non ne parlavo mai e la mia famiglia non avrebbe mai osato tirare fuori l’argomento con me. Recentemente mi sono imbattuto in un libro scritto da uno dei sopravvissuti, più grande di me a quel tempo, che descrive una scena esattamente come la ricordo io. Ho pensato subito: “Allora è accaduto davvero, non è stata una finzione”. I ricordi dei bambini sono labili e quel tatuaggio è una certezza. Ovviamente non mi piace, non lo guardo mai, eppure mi aiuta a razionalizzare. Quando in quella scena del film, Roman mi ha chiesto di mostrarlo, mi sono sentito a disagio. È stato devastante.
Cosa ricorda di Auschwitz?
Mi ricordo quando stavano chiudendo il campo e l'Armata Rossa era in arrivo. I tedeschi erano in fuga, ma volevano portare a termine il lavoro. Io ero con un gruppo di altri bambini ed erano pronti a spararci. Ricordo vividamente la scena: a un tratto arriva un soldato tedesco in sella a una motocicletta e inizia a urlare: “Andiamo, via, scappiamo”. Tutti i soldati lasciano cadere le pistole e se ne vanno. Se fosse arrivato qualche istante dopo molto probabilmente sarei morto. Poco tempo fa ho letto un libro devastante che parla di bambini sopravvissuti e ho trovato una mia foto di quel momento, di quando il campo è stato liberato. C’è anche un’altra foto molto famosa, scattata da un ufficiale dell'Armata Rossa, dove si vedono i bambini davanti al filo spinato che vengono salvati dalle suore dell'orfanotrofio dove mia madre mi ha ritrovato. A volte sono uno di quelli che pensano che questa cosa non sia mai accaduta e questi documenti mi aiutano.
I ricordi d’infanzia, come diceva prima, possono essere ingannevoli.
Spesso non so fino a che punto i miei ricordi siano effettivamente miei o il frutto di qualcosa che ho sentito dalla mia famiglia o che ho letto. Quando Spielberg girò Schindler's List mi invitò a Gerusalemme. È stata un’ultima opportunità per incontrare alcuni degli ex detenuti. Non vedevo l'ora di parlare con loro, sperando di ottenere maggiori dettagli sulla mia esperienza. Tuttavia, ognuno di loro raccontava cose diverse, a volte contraddittorie. La mente umana gioca davvero dei brutti scherzi.
Nel film dice che, quando è tornato a vivere con la sua famiglia dopo la guerra, non riusciva a gestire il dolore. Ha utilizzato una parola che mi ha fatto pensare: civilizzato. Sua madre ha dovuto "civilizzarla". Lo può spiegare?
Ero una piccola creatura, senza alcuna educazione. Non sapevo come sedermi a un tavolo, non sapevo come comportarmi con gli adulti. Ero molto cattivo e urlavo. Mia sorella, che è più grande e ricorda molte più cose di me, racconta che spesso prendevo le cose dal tavolo e le nascondevo sotto al letto per paura che me le togliessero. Mi comportavo come al campo. I miei primi anni, quelli in cui uno dovrebbe formarsi, sono stati spazzati via e tutto quell’orrore per me era la normalità: riconoscere un cadavere, vedere le persone che vengono uccise davanti a te e la paura. Una paura costante.
Le capita mai fare sogni legati alla sua infanzia nel campo?
Di rado, per fortuna, quando vado a dormire dopo aver letto un libro sull’argomento o un diario di un sopravvissuto. Mia moglie s’infuria, ma non lo faccio per torturarmi, lo faccio per cercare di afferrare e imparare tutto ciò che posso sulla mia esperienza. Ed è per questo che sono molto contento quando i ricordi di qualcun altro coincidono con i miei.
L'altro suo posto del cuore è il bagno dove ha iniziato la sua carriera di fotografo. Aveva intuito, a quell'epoca, che la fotografia le avrebbe cambiato la vita?
Io sono sempre stato un pittore, ma quando arrivai a New York, avevo una macchina fotografica con me che utilizzavo per mantenermi. Ho lavorato nella pubblicità e spesso mi trovavo a dare incarichi ad altri fotografi. Ho avuto un sacco di problemi cercando di far capire alla gente che non c'è molta differenza tra la pubblicità e l’arte. Nei principali musei d'arte ci sono fotografie di artisti americani altamente riconosciuti che esteticamente sono come le pubblicità, tranne che non hanno l’inserzione. Ho studiato i grandi maestri e la pittura figurativa, meno quella astratta. Spesso andavo nei musei e nelle gallerie osservavo il loro uso del colore e prendevo appunti. Quelle conoscenze le ho poi potute applicare alla fotografia. Il mio background non è esattamente quello di un fotografo.
Ma è nella Hall of Fame, però.
Sai, quando guardo alcuni dei nomi che sono al mio fianco rimango paralizzato.
Ha fotografato molti personaggi famosi. C'è qualche personaggio del passato o del presente che vorrebbe fotografare?
Ce ne sono molti che non saprei nemmeno da dove cominciare. Ma non sono un fotografo ritrattista di per sé. Mi piace basare il mio lavoro sull’istinto e su quello che sento al momento. Traggo ispirazione da tutto ciò che mi circonda. Nel mio lavoro presto molta attenzione agli incidenti, mi piace incasinare le cose e poi cercare di ricostruirle.
Nel film Roman le chiede se vorrebbe rivivere la sua vita da capo e lei hai risponde che le piacerebbe invece rinascere alle Hawaii. La mia domanda è molto simile. Ovviamente non può cambiare il passato ma può e deve raccontarlo. Quindi, se lei dovesse scrivere la sceneggiatura del film della sua vita, quale sarebbe la prima scena?
In realtà ho scritto un'autobiografia che purtroppo non è mai stata tradotta in inglese: sto ancora cercando qualcuno che lo faccia. È stata pubblicata solo in Polonia. È un libro molto grande, scritto quasi come un copione. Non parla della mia esperienza ad Auschwitz, ma è un libro su come vivere nonostante l’Olocausto. Ho incontrato anni fa uno psichiatra molto famoso: sosteneva che se i tuoi primi sei anni della tua vita sono stati un disastro, il resto seguirà lo stesso filo. E invece la mia vita è abbastanza normale. Certe persone affrontano il dolore in un modo e altre in un altro. Molti dei sopravvissuti sono morti giovani, alcuni di loro erano semplicemente incapaci di muoversi e avere un’esistenza normale. Io mi considero molto fortunato.
Quindi, se lei fosse lo sceneggiatore, posso immaginare chi sarebbe il regista…
Roman? (ride n.d.r.) Non penso sia pronto a farlo. E poi chi reciterebbe nella mia parte? Ti racconto una cosa divertente. Quando Spielberg stava girando Schindler's List, prese in considerazione mio figlio, che all'epoca aveva l’età che avevo io ad Auschwitz, per interpretarmi. Hanno fatto il casting e non è stato scelto. Per fortuna.