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Radu Mihăileanu
“Ognuno contribuisce con il proprio strumento, siamo tutti uniti, suoniamo insieme”. In questa battuta tratta da Il concerto si racchiude il significato del cinema di Radu Mihăileanu, presidente di giuria di Tertio Millennio Film Fest. Le sue sono opere mondo, vicende che accomunano, avvicinano. Un filo conduttore è sempre stato il dialogo tra realtà anche opposte, ma solo all’apparenza. Le sue sono preghiere su grande schermo, sospese tra presente e passato, che non perdono mai vigore. La sorgente dell’amore nel 2011 ha gareggiato per la Palma d’oro al Festival di Cannes. Era la cronaca al femminile di una lotta senza tregua in un villaggio arabo, dove la commedia si mescolava al canto. “Spero di poter vedere film bellissimi, di imparare, condividere al buio di una sala cinematografica”, spiega Mihăileanu.
Quanto è importante il dialogo interreligioso?
Moltissimo. C’è troppa violenza, la gente non capisce che siamo un unico popolo su questo pianeta. E dobbiamo dialogare l’uno con l’altro, costruire ponti tra le culture e non alimentare i conflitti. Bisogna illuminare le ombre, camminare tenendosi per mano. Non so se ci potrà essere la pace tra ogni credo differente, ma non bisogna perdere la speranza. Non è un segreto che l’essere umano può scoprirsi diabolico. Mai come adesso l’estremismo è stato così attivo tra noi. Non è solo una questione di fede. Quando i fanatici salgono al potere, i rischi diventano altissimi. Ed entrano in gioco altri interessi: i soldi, il proprio tornaconto. E quello che succede spesso in Africa e Medio Oriente. Poi un grande veleno della nostra società è la discriminazione. Alcuni si reputano superiori, opprimendo e sporcandosi le mani di sangue. Le differenze spaventano.
Il suo cinema è stato influenzato dall’educazione che ha ricevuto in famiglia?
Certo. Ma alcune volte non è visibile. I miei genitori non erano così legati alla religione, a differenza di mia nonna. Loro vivevano come ebrei, come faccio anche io. Mi definisco però agnostico. Mi interessa la filosofia che c’è dietro al giudaismo, come quella legata a ogni altro credo. In casa mi hanno trasmesso l’essere democratici, l’amare la pace e il donarsi agli altri. Mi ha segnato profondamente la storia di Abramo. La sua è la parabola di un uomo che vuole migliorarsi, superarsi. La chiave è non creare barriere: l’ho appreso da mia madre e da mio padre.
In Train de vie – Un treno per vivere ha parlato della Shoah.
È vero. Ho conosciuto ebrei che vivono in Europa con tragedie alle spalle. I loro parenti erano morti ad Auschwitz. Lo sentivo come qualcosa di personale. Mio padre è stato deportato in un capo di lavoro, ha vissuto il pogrom. Volevo trovare una strada poco battuta per parlarne, utilizzando toni da commedia tragica. In Vai e vivrai invece ho ribaltato la prospettiva: l’unico modo per sopravvivere è fingersi ebrei.
Il suo film più famoso è Il concerto.
È tratto da una storia vera, da una sorta di “travestimento”. Però nella realtà l’orchestra del Bolshoi andava a Hong Kong, non a Parigi. Mi sono documentato a lungo, sono andato anche a studiare la materia a Mosca. Ho scelto di concentrarmi su un gruppo di musicisti che si batte per il rispetto dell’essere umano, per l’armonia.
Che cos’è per lei il cinema?
Una profonda espressione dell’arte, che vive del suo pubblico. Non facciamo film per noi stessi. È nostro dovere cercare di esprimere qualcosa di nuovo, ma senza dimenticarci degli spettatori. Il cinema deve essere autoriale e allo stesso tempo appartenere a tutti. Serve un equilibrio. Nelle mie storie mi concentro sulla libertà, sulla dignità, sul trovare il proprio posto nell’universo per capire chi siamo. Per me è fondamentale.
Adesso sta lavorando?
Sì, ma sono scaramantico (ride, ndr). Non ne parlo fino a quando non ho finito, è come se fossi ancora in laboratorio.
Qual è la sua idea sul futuro?
Il cinema sta attraversando un periodo di transizione. L’intelligenza artificiale è il fulcro del dibattito. Da una parte rappresenta il progresso, ma può essere anche una minaccia. Abbiamo bisogno di regole precise, e in fretta. Per il resto, nella maggior parte dei Paesi il pubblico è tornato in sala. Ma c’è ancora molto da fare. Viviamo nell’epoca del selfie, che mi preoccupa, soprattutto in relazione al cinema. Si cerca la velocità, l’immediatezza. I film invece hanno bisogno dei loro tempi. Penso comunque che sopravviveremo, nasceranno linguaggi alternativi, senza demonizzare nessuno. Dobbiamo batterci per una maggiore educazione, che parta dalle scuole.