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Nicola Lagioia (credits: Chiara Pasqualini)
“Tutti sanno che la fine del mondo ci sarà”, scrive Nicola Lagioia in quello che è forse il suo capolavoro,
Nel modo in cui interpretiamo il futuro c’è sempre una diagnosi del presente. Noi, cioè europei e statunitensi, viviamo in un relativo agio, non dobbiamo lottare per la sopravvivenza, in generale siamo solo molto stressati. Abbiamo accesso in maniera vertiginosa alle conoscenze, viaggiamo con facilità. Eppure, c’è meno giustizia sociale, la democrazia conosce battute d’arresto, il cambiamento climatico ci preoccupa. Lo sappiamo, il mondo ha fatto in tempo a suicidarsi già parecchie volte. E così il futuro è un’incognita.
Per certi versi dà una risposta a un’ansia ingiustificata, per altri dà voce alla paura dell’ignoto che l’umanità prova da sempre. Se tendiamo a vivere il presente in maniera distopica è per un problema reale: la paura del cambiamento.
Sono cicli tipici, ma la cosa diversa rispetto al passato è la velocità: il Medioevo ci ha messo secoli per concludersi, ora invece c’è un’accelerazione che forse ci sta facendo sottovalutare tutte le cose radicali che stanno capitando e capiteranno nei prossimi decenni. Siamo dentro un cambio di paradigma.
Prima il nostro compito era
I nostri dubbi sono leciti ma, mi chiedo, questo futuro pericoloso è già scritto? Siamo alle soglie di un cambiamento epocale. Prendi ChatGPT, un’intelligenza artificiale molto grezza: è solo l’annuncio di ciò che sta per arrivare, come i computer quantici. Non è la prima volta che ci troviamo in una linea di confine così decisiva. Pensiamo a Internet: alla prima possibilità, ci siamo buttati nel cyberspazio senza farci troppe domande. E, tutto sommato, abbiamo retto.
Penso a
Anche Christopher Nolan si è servito della fisica quantistica in
Dico che sono cambiati gli effetti su di noi.
Le prime comunità cristiane erano convinte che sarebbe arrivata la fine del mondo. Ed è una convinzione che si è propagata senza i social. Le grandi narrazioni ci sono sempre state. È vero, oggi tutti possono parlare, però continuano a esserci voci più rilevanti di altre. Mi sembra più vertiginoso capire come si esprime ognuno. Comunichiamo in modo immediato, mentre facciamo altro, in primis lavorare. E questo accade nell’epoca in cui il lavoro definisce l’individuo in modo più netto che in passato.
Lavoriamo in modo più frammentato, l’organizzazione ottocentesca, quella su cui si è edificato il marxismo, si è dissolta in altro. Le istanze di giustizia sociale restano valide perché la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma sono cambiate tante altre cose. Come la gestione del tempo: il tempo libero non è più tale. Non esiste più un
I dati sui cambiamenti climatici sono impressionati, eppure non bastano. Siamo abituati a consumare risorse, a crederci il centro dell’universo e non una parte. Non sono un fanatico dell’antispecismo, ma senza una rivoluzione che sia anche filosofica e spirituale non possiamo combattere la tracotanza di sentirci la specie eletta. E la convinzione che tutto sia dovuto al nostro ego sclerotico e distruttivo.
Non è solo una questione di privilegi, c’entra il conservatorismo. Tutti siamo affezionati al mondo così come lo abbiamo conosciuto, ma non è saggio restare attaccati a quello in cui siamo stati giovani e vivi. Dobbiamo accettare l’idea di essere creature transitorie, in relazione con ciò che ci sta attorno. Prendi le piante: non esisteremmo perché ci serve l’ossigeno, ma loro sono esistite anche senza di noi. Non voglio farne un discorso di profitti, ma ci conviene fare a meno delle piante? L’hanno capito figure lontane, da Papa Francesco di