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Michael Mann - Foto Karen Di Paola
Michael Mann, Ferrari arriva in sala il 14 dicembre: quale è la sfida?
È una storia profondamente umana e universale. C’è tutto: l’amore, la passione, l’ambizione. Ogni cosa è compressa nella vita di Ferrari in modo melodrammatico.
Dunque?
Ferrari e la Ferrari nel 1957, e dovevo fare tutto bene, doveva sembrare giusta per il pubblico e per la verità storica. Questa è stata la sfida. Ma questo è anche l'obbligo: mi irrito quando vedo un cinema pigro e senza vigore. E poi lavoro con attori come Adam Driver, che si è impegnato a diventare Enzo Ferrari in tutto e per tutto. Quindi ha studiato i suoi gesti, i movimenti delle sue mani. E il suo modo di parlare. Poi coinvolgiamo esperti di mass media e approfondiamo i rapporti forensi sull'incidente alla Millemiglia. E questo per circa due, tre anni. Abbiamo analizzato documenti e testimonianze come farebbe un antropologo, cercando di capire i valori e la struttura della società. E così sapevamo esattamente chi fosse Alfonso de Portago: ho pilotato io stesso, conosco l’esperienza e correre in strada aperta è pazzesco.
Un film sulla famiglia Ferrari, e anche sulla famiglia in generale?
Non lo è, riguarda questa particolare famiglia. Ma ciò che trovo così interessante in questo dramma, il che spiega il motivo per cui ho voluto realizzarlo, è che queste persone hanno risuonato in me per come è la vita, e non per come a volte la drammatizziamo. Enzo dice a, e di, Laura cose molto brutali e nello stesso giorno la chiama cinque volte per parlare di affari. Voglio dire, è questo che mi ha colpito. Questa rigidità. Perché solitamente è così che funziona la vita, non ha simmetria.
Focus sulla psicologia.
Mi interessava raccontare la psicologia di Enzo Ferrari: i problemi con l’azienda, il matrimonio che si sta sfaldando e la sua storia extra coniugale, il lutto per la morte del figlio Dino, che però lo porta a guardare al futuro. Abbiamo cercato di rappresentare tutto questo con grandissima cura.
La colonna sonora è fatta con questi antichi motori…
Penso che sia molto poetico, e preciso. L'opera è un melodramma accentuato, e la vita di Enzo Ferrari era molto melodrammatica, a partire dal modo in cui si esprimeva. Pensiamo alla sua autobiografia, che titola Le mie gioie terribili. Storia della mia vita. C'è sempre di più in quello che succede nella sua vita. C'è qualcosa in agguato dietro l'angolo, sta per succedere qualcosa di brutto ed è meglio essere preparati. È davvero così.
Nel 2001 ha diretto Ali, con Will Smith nei guantoni di Muhammad Alì: ci sono analogie tra il pugile e Ferrari?
Bella domanda. In realtà no, per niente. Erano opposti, e questo è interessante. Perché Muhammad Ali era completamente consapevole di sé. Consapevole di essere il campione mondiale dei pesi massimi, e come tale aveva un'influenza e un obbligo: cosa rappresento? I neri americani. E stava lavorando consapevolmente per raggiungere questo obiettivo, da qui la Nazione dell’Islam e Malcolm X. Il suo ruolo di rappresentanza era prescrittivo, Ali aveva sentito la responsabilità di trasmettere il messaggio giusto e il suo modo di pensare. Quindi The Rumble in the Jungle, l’incontro con George Foreman, l’espansione nell'essere: una specie di incoraggiamento spirituale per tutti coloro che emergono dal basso, indipendentemente dal fatto che fossero neri americani o chiunque altro.
Invece Enzo?
Non ha avuto nessuno di questi intendimenti. Se osserviamo la sua personalità, rileviamo tutti questi tratti che stanno in opposizione. In fabbrica, con le corse ha la precisione, la mente razionale e la logica di un ingegnere brillante. Tutto è preciso. Niente accade per caso. Consideriamo la sua calligrafia, le sue lettere: non c'è mai un errore, non c’è nulla di cancellato. È tutto perfetto. Nella sua vita, viceversa, regna il caos più completo. Sta con una donna bellissima, e non c'è alcun ordine. Insomma, come fa a vivere così? Ci sono due parti della sua personalità che esistono in opposizione. Probabilmente, non gradirebbe questa domanda perché non lo definisce nemmeno questa opposizione. Insomma, penso che sia una buona domanda, ma che Enzo Ferrari e Muhammad Alì siano persone radicalmente diverse.
Che cosa la ha affascinata?
Di un personaggio su cui voglio fare un film mi chiedo: quale dovrebbe essere la storia? Allora la prima domanda è: cosa vuole? Cosa è? Cosa vuole Enzo Ferrari in quel momento del 1957, quando tutto va in malora, quando tutte le crisi lo colpiscono allo stesso tempo, quando tutti i conflitti collidono? Le crisi creano conflitto e per me il dramma è conflitto. Quindi questo mio è un approccio molto hegeliano, ma è così che stanno le cose. Per come la vedo io, la cosa interessante in questo Ferrari è che non è realmente una dialettica. È di più, ha maggiormente a che fare con la meccanica quantistica che con la dialettica, perché in realtà non cambia nulla, le cose accadono contemporaneamente in due luoghi diversi, all’interno dello stesso individuo.
Parliamo di lei, Mann: ha corso sulle Ferrari.
Sì, ho gareggiato a Laguna Seca e da altre parti. L'ho fatto abbastanza per sapere come sarebbe stato da regista. Questo è ciò di cui hai bisogno: non realizzare qualcosa, ma sapere di cosa si tratta. Due cose mi erano chiare: ci si concentra su un unico obiettivo e il resto svanisce. E poi il senso di agitazione. Volevo che lo spettatore sentisse questo. Non cercavo una grafica elegante, volevo che il pubblico provasse cosa significasse guidare questo tipo di macchine negli anni Cinquanta.