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Martin Scorsese, foto di Karen Di Paola
La prima settimana del Festival di Cannes è stata caratterizzata da una pioggia torrenziale. Ma nonostante il diluvio quasi costante, quel pomeriggio c’era il sole sulla Croisette. Martin Scorsese entra nella camera d’albergo con un ampio sorriso. Vestito scuro, energia travolgente. A ottant’anni è forse il più grande regista in attività, e lo sa bene. Killers Of The Flower Moon (da noi nelle sale dal 19 ottobre per 01 Distribution)è stato il titolo più atteso al festival, presentato fuori concorso. Lo abbiamo visto qualche ora prima dell’intervista, ed è stato accolto da scroscianti applausi. È tratto dall’omonimo romanzo di David Grann, il cast è stellare: Robert De Niro, Leonardo DiCaprio, Jesse Plemons. La durata è da grandi occasioni, 206 minuti. Siamo negli anni Venti, nelle terre degli Osage. DiCaprio interpreta un reduce di guerra, che si affida a un luciferino De Niro, qui uno zio simile a un padrino. I nativi sono diventati ricchi, perché nei loro territori hanno scoperto il petrolio. Intanto una serie di omicidi sconvolge gli Osage, e l’FBI non tarda ad arrivare. Killers Of The Flower Moon è la fotografia di una nazione sull’orlo del cambiamento, è un’epopea appassionata che condanna l’avidità, sviscera la natura umana e porta sul banco degli imputati chi ha deciso di tacere. Un’opera monumentale, tra le più belle in assoluto del 2023. E la stagione dei premi non è lontana.“Viviamo in un’epoca particolare, scelgo di fare film lunghi per un motivo preciso: il pubblico è ormai abituato alle serie, al binge watching. Ci si chiude in casa e si passano ore a guardare decine di episodi uno dietro l’altro. Quindi perché non farlo al cinema? La mia è una sfida. Cinque ore seduti sul divano non hanno lo stesso valore di 200 minuti in sala? Questa è la mia provocazione. Dobbiamo recuperare la capacità di analisi, di avere una visione attiva delle cose. L’esperienza deve essere genuina e non viziata dall’ambiente circostante. Uscite, sedetevi su poltrone comode, e godetevi l’esperienza su uno schermo grande, con le luci spente”, spiega Scorsese.
Lei ha lavorato con Netflix e adesso con Apple.
È vero, ma credo che sia un percorso necessario. E mi garantiscono comunque un’uscita in sala. Bisogna camminare su sentieri diversi per raggiungere il risultato, riportando così la gente al cinema. Senza dimenticare anche i social, tanto cari a mia figlia, che non smettono mai di inondarci di immagini. È sempre una questione di linguaggio, con la consapevolezza che il futuro sono i giovani. La chiave è capire che cosa vogliamo trasmettere, in un tempo anche molto dilatato, con famiglie che magari fanno fatica a pagare il biglietto. La loro attenzione e i loro sforzi economici dobbiamo meritarceli. È un rituale, che passa attraverso l’illusione e la magia.
Colpa e redenzione sono temi cardine del suo cinema.
Giusto. Qui parliamo però di uomini che le rifiutano. Non vogliono assumersi le loro responsabilità. Si tratta di un viaggio nei nostri sentimenti più profondi. Si chiudono gli occhi invece di inseguire la verità, si rinnegano i massacri del passato, come la Prima Guerra Mondiale, per riscrivere il presente.
Come sono stati i suoi contatti con i nativi americani?
Mi sono avvicinato con rispetto, all’inizio forse c’era anche diffidenza. Mi sono domandato come portare sullo schermo la loro identità, il loro modo di essere. Mi sono sentito un tramite. È stato vitale capire la loro cultura con onestà, senza scadere nei pietismi o nella condiscendenza. Dobbiamo confrontarci con gli avvenimenti, chiedere anche perdono. L’intrattenimento degli studios deve trovare la giusta via per raccontare pagine molto dure della storia. È una nostra responsabilità. Sono rimasto scioccato da quante cose non sapevo, che ho dovuto studiare. Non ero preparato a scoprire quello che i nativi hanno dovuto sopportare nei secoli. Tutti noi dovremmo farcene carico. Mi hanno insegnato l’umanità, mi ha colpito il coraggio, il non avere paura. Anche io vengo da una piccola comunità, nonostante fosse situata a New York. Ma non è paragonabile. Sono stati ghettizzati, senza avere in alcuni casi l’acqua o qualcosa da mangiare. Mi sono seduto davanti a loro con umiltà, per ascoltarli.
Qual è la sua consapevolezza adesso?
Che, se restiamo in silenzio, siamo colpevoli. E non bastano le scuse ufficiali fatte dai governi. Servono degli sforzi in più. Dobbiamo sempre fare attenzione a quali modelli scegliamo, a chi decidiamo di accostarci. Il problema è il sistema corrotto, dedito allo sfruttamento. Ho cercato di essere il più fedele possibile, evitando ogni eccesso. Corpo e anima sono strettamente collegati, non potevo discostarmi dalla sacralità che contraddistingue quella dimensione.
In questo film riabbraccia sia De Niro che DiCaprio.
Con Robert abbiamo un rapporto particolare, duraturo. L’ultima volta era stato con The Irishman, ma avevamo già iniziato a parlare di Killers Of The Flower Moon. Per lui è stato bello condividere ancora il set con Leonardo. Non capitava dal 1993, con Voglia di ricominciare. E Robert mi ha sempre detto: “Guarda quel ragazzo, è proprio bravo. Dovresti proprio lavorarci”. Ho seguito il suo consiglio (ride, ndr). Cerco sempre di creare un legame speciale con i miei attori. Talvolta per rompere il ghiaccio faccio riferimento alla religione. Ma è solo un esempio. L’obiettivo è far breccia con la semplicità. Anche io ho bisogno delle mie certezze. Ho ottant’anni, ho le mie fragilità.
E per quanto riguarda la sua grande passione per il cinema italiano?
Di recente ho fatto vedere Accattone di Pasolini a mia figlia. Anche lei è rimasta strabiliata dal talento di Franco Citti. Poi non capisco mai se certi commenti li faccia per compiacermi o perché ci crede davvero (ride, ndr).
Ha qualche nuovo progetto in arrivo?
Parecchi. Sto valutando alcuni romanzi, sempre con uno sfondo storico. Vorrei approfondire il tema della discriminazione.