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Antonio Albanese dirige Cento Domeniche. Foto di Claudio Iannone
Antonio Albanese non ha dubbi: “È il film che da spettatore avrei voluto vedere”. Chissà se anche il pubblico sarà dello stesso avviso quando il 23 novembre Cento domeniche arriverà in sala. La sua quinta prova in regia è tra le più dure e personali. Girato a Lecco, dove è nato e cresciuto, ha per protagonista un operaio derubato di tutti i suoi risparmi: nome Antonio, tornitore come è stato lui per sette anni, prima di cambiare vita: “Sono stato fortunato ma non dimentico da dove arrivo. La provincia è il mondo della semplicità, dei sogni senza pretese. Un mondo dove le relazioni contano più dei social. Volevo tornare lì, ritrovare le facce che conosco, gente alla buona, che lavora".
La classe operaia. Al cinema sembrava estinta.
Gli operai in Italia sono cinque milioni. Non stanno sotto i riflettori, non possiedono ville in montagna, sognano ancora di vedere sposata la figlia. Di intellettuali che cadono in disgrazia per qualche rovello psicologico ne abbiamo già una vasta cinematografia. Io volevo raccontare la gente normale, che continua a tenere in piedi questo paese.
Il popolo delle Cento domeniche.
Il titolo del film rimanda al tempo che una volta ci voleva per costruire una casa. Negli anni Sessanta durante la settimana si faticava in fabbrica, la domenica con i mattoni. Non esisteva la vacanza, i risparmi venivano usati per le abitazioni. Gente che non usciva mai dalla provincia.
Ne parli con nostalgia.
In realtà la maggior parte delle persone continua a vivere questa semplicità. Basta però qualche mela marcia a rovinare tutto. Sono comunità che si reggono sulla fiducia e quando sperimentano un tradimento perdono punti di riferimento ed equilibrio.
Il tuo Antonio però non perde la propria bussola morale.
Antonio è una bella persona. Anche nella rabbia conserva la sua dignità. Lui non vuole i soldi degli altri, vuole i suoi soldi. Non vuole far del male ma far capire.
Quanto è arrabbiata l’Italia?
Non sono un politico. Sono un cittadino che osserva e trae le sue conclusioni. Certamente non è un periodo sereno. Avremmo bisogno di prenderci del tempo per analizzare, riflettere. Oggi invece domina il giudizio immediato. C’è sempre qualcuno che sa che cosa bisogna fare e come bisogna agire.
Realtà come le banche ci hanno messo del loro, delegittimandosi da sole.
Non sono fenomeni recenti. I primi scandali risalgono al 1893 (Scandalo della Banca Romana, ndr). Il problema non sono però le banche ma le persone. Io le banche le difendo. È grazie a loro se siamo andati avanti e abbiamo avuto la possibilità di comprare case, far studiare i figli. Non volevo fare un film di denuncia sul sistema bancario ma raccontare la vigliaccheria di alcuni individui e l’ingiustizia che si abbatte su un uomo perbene.
Tra i tuoi film pare il più cupo.
Nel mio lavoro cerco sempre di raccontare tutte le sfaccettature della vita, dalla più leggera alla più grave. Ho sempre scelto i miei progetti senza chiedermi se fossero commedie o drammi. Mi sono ritrovato spesso a far ridere il pubblico ma anche a farlo riflettere.
C’è più istinto o metodo nel tuo approccio?
L’istinto conta, la preparazione di più. Nulla è improvvisato. Si parte sempre dalle letture e dagli incontri personali. Poi c’è il mestiere. Prima di girare Cento domeniche ho conosciuto diverse persone che avevano vissuto esperienze simili a quelle del protagonista del film. È grazie a loro se questo progetto possiede autenticità. Ma senza la mia meravigliosa squadra di attori sarebbe stata un’autenticità senza vibrazioni.
Credi molto nella recitazione.
Da sempre sostengo che il teatro è degli attori, non dei registi. È la loro capacità, la loro sensibilità, che ci emoziona.
Tu sei un attore che lavora molto con il corpo. L’Antonio di Cento domeniche invece ha una fisicità e una gestualità trattenuta.
Chi ha sofferto vicende come quelle del film si sente come paralizzato. È il suo stomaco a contorcersi. Potevo restituire questo stato di cose solo imponendo al corpo di non recitare. È come un fermo immagine, in cui tutto il dolore viene rappreso.
Anche la regia è altra cosa rispetto al parossismo di Qualunquemente. Quasi invisibile.
Non volevo divagazioni estetiche, ma concentrarmi sull’emotività e sui corpi degli attori. Tenere il fuoco sugli esseri umani.
Che momento sta vivendo il cinema italiano?
Non mi sono fatto un’idea precisa. Sono uno spettatore curioso e in giro vedo una ripresa. Sono ottimista sul nostro cinema, che è fatto di professionisti bravissimi.
Da Epifanio a Cetto La Qualunque, hai saputo ogni volta trovare una maschera adeguata al proprio tempo. Stai già pensando alla prossima?
Sono sempre al lavoro per nuove maschere anche se ultimamente sono impegnato su altre cose. Ci sono periodi in cui si possono fare delle cose e periodi in cui non si possono fare. Non perché te lo vieti qualcuno, ma perché sarebbe banale ripetersi. Preferisco rischiare di più e lavorare a cose nuove.
Nel 2023 non ti sei fatto mancare nulla: dai film alla lirica. Hai persino incontrato il Papa a febbraio, nell’udienza per il 75mo della Fondazione Ente dello Spettacolo.
Un anno intenso, aperto da un momento bellissimo. Il Santo Padre ha mostrato un amore straordinario per il cinema, ricordandoci di raccontare il nostro tempo senza abdicare mai alla missione che l’arte deve sempre avere: migliorarci come uomini. Ha fatto del cinema un discorso evangelico.