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Franco Nero (credits: Riccardo Ghilardi)
Franco Nero non è solo una leggenda del cinema, uno degli attori italiani più celebri e amati di tutti i tempi. Ma è anche uno che non riesce a stare fermo, un signore che continua a lavorare a ritmi invidiabili, affamato di nuove esperienze, curioso e disponibile. Provate a districarvi nella sua filmografia senza perdervi: più di duecento crediti in circa sessant’anni. E non appena finisce un film, ne inizia un altro, e poi un altro ancora, in chissà quale parte del mondo.
A distanza di diciassette anni da Forever Blues, torna alla regia con l’opera seconda L’uomo che disegnò Dio, di cui è anche protagonista, nelle sale italiane dal 2 marzo. “Eugenio Masciari aveva scritto questa storia molti anni fa – spiega Nero – ispirandosi a un cieco che riusciva a ritrarre le persone chiunque usando la plastilina. Me l’affidò, ma nessuno voleva produrlo. Però ci credevo tantissimo, quindi tre anni fa io e il mio sceneggiatore Lorenzo De Luca l’abbiamo ripreso in mano”.
Nero interpreta Emanuele, un artista non vedente che ha il miracoloso potere di realizzare ritratti di persone solo ascoltandone la voce. La sua vita viene stravolta completamente quando un video di lui che mette in pratica questo potere diventa virale. E uno show televisivo tenta di sfruttarne la popolarità. “La cecità mi ha sempre affascinato, i non vedenti hanno una sensibilità incredibile. Una volta, a Londra, ne vidi uno che si muoveva nel traffico come se ci vedesse davvero. Perciò ho voluto inserire il tema della televisione spazzatura: è spregevole approfittarsi delle disgrazie altrui”.
Cosa l’attraeva del progetto?
“Avevo già tutto in mente, ci ho messo l’anima. Le riprese sono state durissime: abbiamo girato durante il Covid, d’estate, quando eravamo nel circo c’erano 47 gradi perché non doveva filtrare la luce del sole. Il circo è una mia grande passione sin da piccolo: facevo dei numeri perché ce n’era uno vicino casa, ne parlavo sempre con Fellini”.
Come in Forever Blues, c’è un personaggio non più giovane, sconfitto dalla vita, che trova una nuova occasione di riscatto conoscendo lì un ragazzino e qui un’adolescente. Le interessa questo incontro generazionale?
“Lavoro da sempre con i ragazzi, per me è una missione. Nel film ho voluto raccontare la piaga del razzismo proprio attraverso una bambina che, insieme alla mamma, scappa dalla guerra e arriva a Torino: è lei che cambia la vita a Emanuele, che gli offre un riscatto e lo rende meno duro e solitario”.
Un personaggio insolito per il nostro cinema, simile a quelli che interpreta Clint Eastwood.
“Sono amico di Clint, abbiamo la stessa mentalità. Io continuo a cercare dei personaggi che mi entusiasmino. Ho accettato di fare il pontefice in L’esorcista del papa, un film con Russell Crowe che uscirà in sala ad aprile, e ho rifiutato un ruolo in The Equalizer 3 con Denzel Washington. Mi avevano offerto un sacco di soldi per interpretare un anziano medico, ma non mi interessava assolutamente. Preferisco fare altro”.
Cosa intende?
“Per esempio, a breve mi vedrete in una storia d’amore tra due anziani. Una specie di Amour, ma un po’ differente. È la storia di una grande attrice che comincia ad accusare dei tremori, il figlio si preoccupa e chiede al padre di assisterla. I due non si vedono da venti, trent’anni, non hanno alcuna intenzione di riavvicinarsi, ma – e qui c’è la storia – quel nuovo incontro fa riaffiorare l’amore. Accanto a me ci sarà Anna Galiena, perfetta per il personaggio”.
Ha lavorato con i registi più grandi, c’è qualcuno che ha ispirato il suo lavoro dietro la macchina da presa?
“Potrei dire tutti, da Luis Buñuel a Rainer Werner Fassbinder, passando per Elio Petri. Il mio desiderio più grande era quello di fare un film come si faceva negli anni Cinquanta o Sessanta. Una storia da girare in modo classico. Io parto dal presupposto che non possiamo competere con gli americani: il nostro compito è raccontare storie sfaccettate che possano far ridere, commuovere, emozionare”.
Il cast è molto ricco ed eterogeneo e naturalmente spicca Kevin Spacey, alla sua prima partecipazione dopo le note vicende.
“È stato molto carino e umile, ha accettato di recitare in un piccolo ruolo. È sempre molto riconoscente con me. Tutti sbagliamo e tutti abbiamo diritto a una seconda possibilità. E ricordiamoci che parliamo del più bravo attore del mondo”.
Ma c’è anche un’altra icona di Hollywood, Faye Dunaway.
“Faye è una mia grande amica, è sempre bravissima. Per il personaggio del finto cieco napoletano, tutti mi offrivano i soliti attori ma io volevo Massimo Ranieri: tutti pensano che sia solo un cantante, ma in realtà è un genio. Il mio amico Vittorio Storaro avrebbe dovuto fare il direttore della fotografia, ma a causa del Covid non se l’è sentita. Al suo posto c’è Gerardo Fornari, molto bravo”.
Da dove le arriva questa forza?
“Laurence Olivier mi diceva: “Hai il fisico del vincente, potresti interpretare solo ruoli da eroe. Ma che monotonia! Fa’ l’attore, avrai alti e bassi ma potrai sempre cambiare pelle”. Ho seguito il suo consiglio. Ho fatto di tutto: tutti i generi, trenta nazionalità diverse, dal palestinese al sudamericano”.
Come mai, secondo lei?
“Sarà il sangue gitano della mia nonna spagnola, ma la verità è che accetto le proposte che mi piacciono di più, alla prima occasione prendo un aereo e vado all’avventura. A breve spero di andare in Messico per una storia nello stile di Green Book, con un padre e un figlio che si mettono in viaggio per disperdere le ceneri della donna che per loro è stata rispettivamente moglie e madre. Due uomini che non si conoscono e che impareranno ad amarsi”.
In effetti lei è molto richiesto all’estero.
“Qualche anno fa, un regista tedesco, Marco Kreuzpaintner, mi chiamò per un film. Lessi la sceneggiatura, mi accorsi che il mio personaggio non parlava molto, titubavo. Mi telefonò: “Ho bisogno della tua faccia”. Accettai. Il caso Collini è andato in tutto il mondo, in Italia è stato trasmesso dalla Rai perché c’era il Covid: è un capolavoro. Grazie al mio lavoro ho visto tutto il mondo: negli ultimi anni sono stato in Croazia per The Match, in cui interpretavo un uomo scampato ai campi di concentramento, in Canada ho girato Recon, che in Italia è stato malamente tradotto come 1944 – La battaglia di Cassino, che non c’entra niente. Ah, i titoli italiani…”.
Cioè?
“Die Hard 2 fu un grande successo e tutto il mondo lo conosce giustamente con quel titolo. In Italia, no: da noi arrivò come 58 minuti per morire. Ma che significa? Nel 1972 feci un western con Anthony Quinn, Deaf Smith & Johnny Ears. Come fu distribuito in Italia? Los amigos. Perché gli spettatori vengono trattati come se fossero imbecilli?”.
Soddisfatto de L’uomo che disegnò Dio?
“Ci saranno dei difetti ma penso sia un buon film. Quando è stato proiettato a Torino, molti spettatori mi hanno ringraziato perché finalmente si torna a raccontare storie. È stato un vero tour de force, ma ci credevo tantissimo e volevo che trasmettesse messaggi e valori forti. Ci ho messo anima e corpo”.