Nel pieno della sua terza vita artistica, quella da regista, dopo gli esordi teatrali (“A Livorno avevamo messo su una compagnia”) e il lungo intermezzo da altrui sceneggiatore (c’è la sua firma nei maggiori successi di Virzì), Francesco Bruni ha avuto una rivelazione: “Credo di piacere ai cattolici”.
Lo dice sottovoce, tradendo più curiosità che sgomento. L’impressione è che abbia accettato questa intervista anche per chiedercene conto. Del resto, La Rivista del Cinematografo non ne ha mai fatto mistero: tre premi importanti in poco più di dieci anni - Premio Rivelazione a Filippo Scicchitano per Scialla! nel 2011; Premio Navicella Cinema Italiano a Cosa sarà nel 2020; il Premio Navicella Serie a Tutto chiede salvezza un mese fa – vanno oltre l’attestato di stima. Bruni piace. E non perché sia una persona perbene – lo è – e nemmeno perché il suo lavoro sia un utile supporto per il catechismo della domenica pomeriggio: “Mi ritengo ancora un ateo”, ribadisce. No, c’è dell’altro. E lo ammette lui stesso: “È come se voi mi stesse dicendo che nel mio cinema c’è qualcosa di fortemente spirituale”.

Il tuo lavoro ha un’anima.

"Questa cosa mi colpisce molto. Mi ricorda un insegnamento del mio grande maestro, Furio Scarpelli: ‘Non importano i soldi, gli effetti speciali, le storie roboanti. I vostri film devono avere un’anima’. L’ho sempre inteso come l’avere un pensiero profondo sul mondo e sulle persone. Ma forse c’è dell’altro."

Ovvero?

"Una forma di spiritualità. Non ne ero del tutto consapevole fino a Cosa sarà. Un titolo di svolta. In quel momento del mio vissuto ho realmente rimesso in discussione me stesso. Non approdando alla fede, questo no, ma cambiando ottica sulle cose. Per la prima volta ho avvertito, forte, la sensazione che il mio tempo non fosse illimitato. A un certo punto ho firmato un documento in cui mi si diceva quante possibilità avevo di morire. Questo ha ridefinito il mondo intorno a me, le persone che ritenevo amiche e non lo sono più state, quelle che avevo ignorato e che invece si sono avvicinate. Di colpo ho fatto piazza pulita di una serie di pensieri, frustrazioni, malumori che mi avevano segnato fino a quel punto.”

Santa Teresa di Lisieux parlava della malattia come di un momento di purificazione spirituale.

"La malattia è una parte di me. A febbraio saranno cinque anni da che si è manifestata. Dopo, si dice, le possibilità di una recidiva sono estremamente basse ma io preferisco non crederci. Voglio continuare a lavorare pensando di avere questa possibilità dentro di me. Il medico mi ha detto una cosa che non dimenticherò: ‘Non dire mai che hai sconfitto il tumore. Dì che è in remissione’. Me lo fa immaginare come una creatura che, dopo essersi preso tante mazzate, si è rintanata da qualche parte. Però non è morta."

Dove altri preferiscono rimuovere, tu invece vuoi ricordare.

“Decisamente. Tutto quello che faccio adesso deve avere un significato importante. Ho lavorato tanto nella mia vita, ho fatto anche cose che non mi rappresentano, che non dicono niente di significativo, di puro intrattenimento. Adesso non ho più voglia."

Federico Cesari e Francesco Bruni premiati con il Navicella Serie per \\\"Tutto chiede salvezza\\\" (credits Karen Di Paola)
Federico Cesari e Francesco Bruni premiati con il Navicella Serie per \\\"Tutto chiede salvezza\\\" (credits Karen Di Paola)

Federico Cesari e Francesco Bruni premiati con il Navicella Serie per "Tutto chiede salvezza" (credits Karen Di Paola)

Il discorso sulla fragilità come esperienza di forza è una costante nel tuo lavoro. Ed è molto coraggioso in un’epoca che la fragilità vuole invece negarla.

“La fragilità è una virtù. È un concetto che lega Cosa sarà a Tutto chiede salvezza. È una cosa che sento profondamente mia, che mi appartiene. Trovo fastidiosissima l’odierna retorica del guerriero, un’offesa profonda nei confronti di quelli che non ce la fanno. Chi è che non lotta per non sopravvivere? Questa cosa fa parte di una cultura imperante, deleteria, che si alimenta anche e soprattutto attraverso i social. Una retorica che ci vuole vincenti. Quando proponi una sceneggiatura spesso ti chiedono qual è il superpotere del tuo personaggio. Nel caso del protagonista di Tutto chiede salvezza il superpotere era ad esempio la fragilità, la sensibilità, l’incapacità di proteggersi dal dolore. In generale però si continua a vagheggiare sul superuomo.”

Siamo ancora figli di Nietzsche. Pensiamo alla vicenda dolorosa di Vialli. Abbiamo letto della caparbietà con cui ha affrontato la malattia, salvo dimenticarci che è morto. È come se oggi mancasse una componente antropologica fondamentale, che integri l’esperienza della morte nell’orizzonte dell’uomo.

"Io ci penso spesso invece. Che cosa lascerò, quando me ne andrò, è oramai il mio mantra. Anche in questo mondo dello spettacolo. Di fronte a un sistema che ti vuole performante, di successo. Dietro questa retorica del superuomo dimentichiamo spesso che ci sono persone. Nel privato però le cose cambiano. Qualche tempo fa Kim Rossi Stuart mi ha raccontato di quando Mihajlovic, che è stato un po’ l’emblema del guerriero, gli disse di aver visto tante volte Cosa sarà. È una cosa che mi ha colpito molto.

Ai futuri sacerdoti il Santo Padre ha detto: “Non superuomini, ma con il cuore al ritmo di quello di Gesù”.

"Papa Francesco è una figura che ammiro in maniera totale e acritica. È una di quelle persone che in questi anni mi hanno molto colpito. L’altra è don Matteo Zuppi. Con lui ho avuto un rapporto piuttosto intenso: mi ha permesso di girare Tutto quello che vuoi in Santa Maria in Trastevere. È venuto a presentarlo in Piazza San Cosimato, ci siamo scritti tante volte, ha visto sempre i miei film, li ha recensiti, per così dire, affettuosamente.”

Federico Cesari in Tutto chiede salvezza. Cr. Andrea Miconi/Netflix © 2022
Federico Cesari in Tutto chiede salvezza. Cr. Andrea Miconi/Netflix © 2022

Federico Cesari in Tutto chiede salvezza. Cr. Andrea Miconi/Netflix © 2022

L’altro grande grumo di spiritualità che riconosciamo nel tuo lavoro è il tema delle relazioni. Ci si salva insieme.

"È anche il modo in cui concepisco il set: un luogo di relazioni. Il mio ideale sarebbe avere a disposizione gli attori per tutto il tempo delle riprese. Questa cosa è difficile oggi. Lavorano tutti talmente tanto! Ad Anzio però, dove abbiamo girato Tutto chiede salvezza, si è creata questa cosa. Stavamo tutti lì, dormivamo lì, andavamo a cena insieme. Si è creato un clima affettuoso che tuttora permane. Ci sono elementi familiari in tutte le cose che ho fatto: a parte mia moglie, Raffaella Lebboroni, c’è mio figlio in Tutto quello che vuoi. Sue sono le musiche in Tutto chiede salvezza. Mia figlia ha fatto il casting di Cosa sarà e di Tutto chiede salvezza. E ci sono degli attori che per me ormai sono famiglia, come Lorenza Indovina e Fotinì Peluso. Persone con cui il rapporto non è solo professionale. Per me la parola professionale è dannosissima, esclude l’elemento affettivo. Io sono legatissimo ai miei attori. Quando li vedo su un altro set, dopo che hanno lavorato con me, ho un attacco di gelosia.”

A proposito di Tutto chiede salvezza, sapevi che l’autore del libro, Daniele Mencarelli, è un punto di riferimento dei cattolici?

"Quando ho letto il libro non sapevo nulla di lui. Rivedendo la serie però mi sono accorto di quanti fossero i simboli e i momenti di spiritualità presenti. Quando Federico Cesari legge la poesia in chiesa, alle sue spalle c’è un crocifisso e lui in qualche modo lo riempie, lo sostituisce. Non ci avevo pensato girando. Me ne sono accorto dopo."

Il titolo esprime già il cardine del cristianesimo: la fede in quel Dio che vorrebbe salvare tutto, imponendosi come limite la libertà dell’uomo.

"In Scialla! si parla di pietas, intesa come sguardo sull’altro, ascolto, attenzione, cura. È quello che Bentivoglio cerca di insegnare al personaggio di Scicchitano quando gli dice “rispetto”, intendendo qualcosa di profondamente diverso da quello che il ragazzo immagina, ovvero il rispetto alla maniera dei delinquenti. Successivamente ho scoperto che Virgilio, che è l’argomento del contendere tra i due, era molto amato in ambito proto-cristiano, sulla base del fatto che nell’egloga quarta lui parla del puer divinus, che per le comunità del tempo era una sorta di anticipazione della venuta di Cristo.”

Citi Virgilio e pensiamo ad Enea e Anchise: l’immagine di lui che porta il vecchio padre in spalle è un’immagine fortissima, che ritroviamo nel rapporto tra il giovane Carpenzano e l’anziano Montaldo di Tutto quello che vuoi e, a parti invertite, tra Bentivoglio e Scicchitano in Scialla!

"Virgilio è un autore che amo molto, anche per il sentimento nuovo che ha portato nella letteratura. Un sentimento che non era presente fino ad allora: Enea è l’eroe pio, mite, non violento, in qualche modo pieno di dubbi.”

Qui vengono fuori i tuoi studi di lettere classiche. Tesi su Virgilio?

"No, sui regni neo-ittiti in Anatolia. Ma dell’esperienza universitaria a Pisa ricordo soprattutto l’Arsenale, che stava a 200 metri da casa. Ci passavo le giornate intere e lì ho visto tantissimi film meravigliosi.”

Tutto quello che vuoi (credits webphoto)
Tutto quello che vuoi (credits webphoto)

Tutto quello che vuoi (credits webphoto)

Così inizia il tuo apprendistato al cinema?

"No, inizia in una parrocchia di Milano, Sant’Ildefonso, dove sono cresciuto. Aveva un cinema, il cineteatro Orizzonte che la domenica pomeriggio proiettava film cappa e spada. Lì c’era un prete molto avanguardista, don Lanfranco, che faceva un cineforum per adulti. Ricordo che i miei andavano a vedere Pasolini, robe impegnative di cui poi parlavano a casa. Il mio imprinting è stato quello.”

E il primo film che ti ha aperto un mondo?

"Nashville di Robert Altman, che ho visto a 13 anni. Mi portò mio padre. I miei erano genitori aperti, di cultura anglofona. Mio padre lavorava per la Arthur Andersen, una società di consulenza americana. In casa nostra girava parecchia musica americana, libri americani. Il mio apprendistato al cinema è continuato a Livorno, dove ho conosciuto Paolo Virzì. Lì c’era un cine-teatro, I 4 mori, dove ho cominciato a fare teatro. Prima in compagnie filodrammatiche, facendo l’assistente scenografo. Poi con Virzì abbiamo messo su una compagnia teatrale nostra, Spazioteatro. Abbiamo allestito un testo di Virzì con regia mia. Abbiamo tentato di fare anche teatro sperimentale: Pinter, Mamet. Per questo amo molto il cinema dialogato, i personaggi. Se c’è un bel dialogo per me gli interpreti possono stare seduti e parlare cinque minuti, non c’è problema. Non sento il bisogno di muovere la macchina. Per me gli attori sono le stelle polari della messa in scena. Insieme alla sceneggiatura."

Un tempo scrivevi soprattutto per gli altri.

"E vorrei tornare a farlo, ma non mi chiamano. C’è questo fatto che una volta che sei regista non vieni più considerato come qualcuno che può prestare servizio ad un altro regista, ma un competitor. È una cosa sciocca. Forse però con Virzì ricominceremo.”

Che cinema piace a Francesco Bruni?

"Comunicativo a più livelli. Semplice nella sua esposizione ed empatico. Un cinema che magari la critica non apprezza, pensando che complessità e artificiosità siano sinonimo di qualità. Anche se io personalmente ho sempre avuto un ottimo rapporto con la critica. I festival, però, nei confronti di un cinema semplice, comunicativo, “largo”, hanno una certa preclusione. Io l’ho subita. Dopo Scialla! i miei film non sono stati mai presi, a eccezione di Cosa sarà a Roma. Questa cosa mi fa un pochino soffrire. Penso che si scambi la semplicità, che è un punto di arrivo, con la banalità.”

Con quali altri registi ti piacerebbe lavorare?

"Martone e Bellocchio. Entrambi, pur essendo dichiaratamente laici, hanno una capacità di introspezione sull’animo umano straordinaria."

Francesco Bruni e Kim Rossi Stuart sul set di Cosa sarà (credits Webphoto)
Francesco Bruni e Kim Rossi Stuart sul set di Cosa sarà (credits Webphoto)

Francesco Bruni e Kim Rossi Stuart sul set di Cosa sarà (credits Webphoto)

E dirigere una sceneggiatura non tua?

"Non saprei farlo. Sarei un regista mediocre. Senza l’ispirazione la mia tecnica non esiste. Mi sento un autore alla vecchia maniera: mentre scrivo immagino."

Qual è il tuo giudizio sulle piattaforme, ora che ci hai lavorato?

"Le piattaforme sono già nella loro fase matura di sviluppo. Oggi la loro offerta non è solo ricca in termini quantitativa. C’è parecchia qualità. La serialità poi ti dà la possibilità di lavorare in profondità sul racconto, di esplorare i personaggi che al cinema sei spesso costretto ad abbandonare anche quando non vorresti. La visione in sala però è un’altra cosa. Quando abbiamo fatto l’anteprima al cinema di Tutto chiede salvezza ero colpito dalla potenza dell’immagine e del sonoro. Non volava una mosca. Vorrei tornare al cinema. Sperando di trovarli ancora aperti.