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Federico Cesari in Tutto chiede salvezza (credits: Andrea Miconi/Netflix)
Era il 23 marzo 2018 quando uscì il primo episodio di SKAM Italia, un racconto che ha rivoluzionato la serialità italiana. Un cast straordinario, pieno di giovani che oggi stanno rinnovando il nostro star system: Ludovica Martino, Giancarlo Commare, Francesco Centorame, Ludovico Tersigni.
E soprattutto Federico Cesari, che in quella serie ormai di culto interpreta uno dei personaggi più amati, Martino Rametta. “Martino mi ha fatto capire cosa vuol dire fare l’attore: non è scontato avere la possibilità, a 21 anni, di affrontare un personaggio così complesso e profondo”.
Oggi Federico Cesari di anni ne ha 26 e negli ultimi cinque ha lavorato tanto (trovando anche il tempo di studiare: iscritto a Medicina, ha appena dato l’ultimo esame). E bene: Tutto chiede salvezza, la serie di Francesco Bruni, l’ha consacrato come uno dei talenti più folgoranti della sua generazione. L’abbiamo incontrato a Roma, dov’è stato protagonista di un incontro organizzato da Cinematografo.
Cosa rappresenta per te Martino?
A un giovane capita spesso di interpretare figure che si rappresentano in funzione di altri personaggi. Per esempio il “figlio di”, che nella storia incarna il vincolo dell’adulto a non abbandonare la famiglia. Martino, invece, è un’altra cosa: mi ha dato la consapevolezza di cosa significa immergersi nella vita di una persona e nel suo mondo. Non esiste in funzione di ciò che rappresenta per gli altri. E poi, oltre al quotidiano e alle varie sfaccettature di Martino, in SKAM raccontiamo un percorso di scoperta di sé. E lo spettatore scopre le stesse cose insieme a lui.
Hai iniziato a 10 anni, apparendo in due film di Pupi Avati, La cena per farli conoscere e Il figlio più piccolo. Cosa ricordi di te bambino sul set?
Era tutto enorme. Un’esperienza magica: non capivo bene cosa stesse succedendo, ma ricordo tante emozioni sovrapposte, la frenesia generale, la percezione che attorno a te si stia creando qualcosa. Mi colpì quanto fosse dilatato il tempo, che non scorreva in modo normale: tutto si concentrava e si comprimeva nel momento in cui si entrava in scena.
Tra il 2009 e il 2010 partecipi a due serie popolarissime: I Cesaroni e Tutti pazzi per amore.
Vivevo tutto come un gioco, un diversivo del quotidiano, anche se sono stato sul set due mesi per almeno dieci ore al giorno. Avevo 12 anni, all’epoca I Cesaroni era una cosa mitologica, per me era incredibile esserci. Con Federico Russo (che interpretava Mimmo, il figlio più piccolo dei protagonisti) ci lasciavano liberi di giocare, ogni tanto tiravamo la palla contro il camerino di Claudio Amendola e lui ci diceva le parolacce (ride, ndr). In Tutti pazzi per amore, invece, interpretavo il figlio di Giulio Base: un ruolo più piccolo, un serioso bambino borghese.
Prima di una lunga pausa di cinque anni (cioè il periodo del liceo), appari anche ne I nostri ragazzi di Ivano De Matteo.
Lì ero già un po’ più consapevole, c’era un clima spensierato ma anche la possibilità di sperimentare. Giocavo alla pari con gli altri ragazzi.
Dopo il liceo scegli di iscriverti a Medicina, finché nel 2017 torni a recitare. Perché?
Molto spesso non abbiamo la fortuna di capire cosa fare da grandi, non basta un percorso liceale. Avevo abbandonato la recitazione senza drammi, era stata una bella parentesi. Finché un giorno mia mamma, tramite un amico, ha saputo che era nata nuova agenzia. Ci provo, mi dico che poteva essere un modo per distrarsi e fare nuove esperienze. Medicina mi interessava, ma in fondo avevo scelto un percorso convenzionale: sono cresciuto con l’idea di costruirmi un futuro lineare. E la recitazione non te lo dà. Ma non è che fossi così sicuro.
E primo film del tuo “nuovo corso” è Non c’è campo di Federico Moccia (2017) ti ha schiarito le idee?
Non molto, ma mi sono divertito tantissimo. Però già con SKAM ho cominciato a capire cosa vuol dire interpretare un ruolo, conoscermi meglio, capire le mie esigenze. Non ho mai avuto tempo di concentrarmi su di me e sui miei bisogni, l’ho fatto sempre in modo inconscio.
SKAM ha aperto spazi, proposto modelli, lanciato interpreti.
È un progetto a cui sono molto grato, che ha rinnovato l’approccio alla recitazione, offerto una nuova modalità di racconto e di interpretazione. Tieni conto che ero abituato ai tempi televisivi di quando ero più piccolo.
Cosa intendi per “tempi televisivi”?
Mi chiedevano di essere incalzante a prescindere dal tipo di scena. All’epoca il concetto di ritmo era questo. E io non ho frequentato scuole e accademie, solo alcuni stage per affinare le tecniche. SKAM ha ribaltato il tavolo: c’è più realismo e i personaggi usano parole che si usano nella vita vera. Ai provini Ludovico Bessegato (ideatore e regista delle prime due stagioni, ndr) mi diceva di non correre, prendermi i miei tempi, creare il non-detto. I silenzi che ti permettono di interiorizzare i sentimenti in modo espressivo. SKAM si basa molto sul non-detto.
Non c’è mai un momento in cui Martino si dichiara gay: lo scopre nel quotidiano.
E non si dice mai “ti amo”, non si chiama mai il partner “amore” o “amo’”. E comunque si capisce che c’è l’amore, non c’è bisogno di dirlo.
Nel 2020 partecipi a La guerra è finita, miniserie di Rai Uno in cui interpreti Gabriel, un ragazzo ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento. Da volto molto ancorato alla contemporaneità, come ti sei confrontato con un adolescente degli anni Quaranta?
Gabriel condivide molte cose con i personaggi “contemporanei”. Vive un blocco emotivo che sfoga con rabbia, alla fine supera il suo trauma e si rende visibile al di là di ciò che rappresenta per la società. È stato un lavoro faticoso perché molto tecnico: dovevo evitare alcune pose e parole che all’epoca non esistevano all’epoca. Era difficile “sporcare” le battute, una parola come “ok” non si poteva usare. Però, quando stai dentro una macchina del genere, il tuo cervello funziona in maniera diversa, cambi il punto di vista, ti cali davvero nel mondo di un ragazzo del 1945.
C’è un personaggio del passato che ti piacerebbe interpretare, magari da rileggere in una prospettiva inedita?
Non so, mi piacerebbe affrontare Eugenio Montale. Grazie a mio ultimo film, La poetessa dei Navigli di Roberto Faenza, dedicato ad Alda Merini, mi sono avvicinato alla poesia.
Chi sei nel film?
Arnoldo Mosca Mondadori, l’editore che ha seguito gli ultimi dieci anni di Merini, partecipando appieno alla sua vita. Laura Morante sarà la poetessa: Merini è stata una personalità magica, spero che il film dia un riflesso del suo mondo.
Di recente è arrivato il grande successo con Tutto chiede salvezza, serie disponibile su Netflix. Conoscevi già il romanzo di Daniele Mencarelli?
L’ho letto durante i provini. C’è tutto quello che cerco in un romanzo: non mi piace molto leggere della vita vera, i miei libri preferiti sono quelli che raccontano cose verosimili. Ho finito recentemente Yoga di Emmanuel Carrère: quando qualcuno ha il coraggio e la generosità di mettersi a nudo e scrivere in modo così sincero della propria vita, avallato dal fatto che hai un grande talento artistico, ti senti colpito in pieno. Come Mencarelli, che ti fa ridimensionare un sacco di cose della tua vita, ti fa capire più di te stesso, ti legittima dei sentimenti, ti attiva un meccanismo di crescita. Tutto questo lo fa un libro, è incredibile.
Com’è stato il rapporto con Francesco Bruni, autore della serie?
Bruni è una persona magnifica. Ti rendi conto che ciò che scrive è lo specchio di ciò che è. Avevo fatto un self-tape, quando mi hanno chiamato per il provino provavo un certo timore reverenziale nei confronti di Bruni. E invece, una volta arrivato sul set del provino, lui mi ha abbracciato, mi ha detto che gli ero piaciuto. È molto presente, empatico, paterno, sa stare dentro le situazioni, capisce bene ciò di cui hai bisogno.
Quello di Daniele, il ragazzo che subisce un TSO, è un ruolo molto difficile, borderline, spericolato: hai avuto paura?
Non conoscevo percorsi di sofferenza psicologica così estremi, avevo paura di edulcorare e non dare una rappresentazione fedele. Parliamo di una sofferenza molto specifica, col senno di poi mi ha ricordato proprio Yoga, quando Carrère, legato al letto d’ospedale, chiede alla sorella e ai medici di morire. È una così così precisa che hai paura di non arrivarci. La prima settimana stavo così male che ero convinto di avere qualcosa in gola. Così sono andato a farmi una laringoscopia: mi dissero che era solo globus hystericus.
Cioè?
Ansia. Mi dispiaceva rovinare un’occasione così bella. Credo sia anche legato a come la nostra generazione rivolga più attenzione e sensibilità ai temi della salute mentale: i disturbi aumentano di anno in anno, rispetto a vent’anni fa (Tutto chiede salvezza è ispirato alla vita di Mencarelli, che subì un TSO alla metà degli anni Novanta, ndr) i criteri sono cambiati, c’è un maggiore tasso di diagnosi.
Com’era il clima sul set?
Meraviglioso. Francesco è un tipo di regista che non si contrappone mai, ti asseconda, lascia che i tuoi sentimenti fluiscano, fa in modo che si amplifichino affinché si arrivi dove vuole lui. È accogliente, dialogante. Con gli altri attori c’era molta condivisione: siamo stati isolati due mesi e mezzo ad Anzio e Nettuno, eravamo sempre insieme. Mi rendo conto che, prima con Bessegato e poi con Bruni, ho avuto la fortuna di trovare registi che hanno capito l’affinità umana tra le persone. Non è scontato: ai provini hai poco tempo per capire qualcosa. E invece sono stati capaci di creare gruppi coesi che credono negli stessi principi.
Ci sarà una seconda stagione?
Non lo sappiamo ancora.
E Martino tornerà nell’annunciata sesta di SKAM?
Chissà.
Oltre al biopic su Merini, cosa c’è dietro l’angolo?
Greta e le favole vere di Bernardo Carboni, un film per bambini sul tema ambientale. E l’opera prima di Claudio Bisio, L’ultima volta che siamo stati bambini.
Con chi ti piacerebbe lavorare?
Tra gli italiani dico Marco Bellocchio e Mario Martone, ma potrei fare tanti altri nomi. Tra gli stranieri, Leos Carax: amo Gli amanti del Pont-Neuf. E Charlie Kaufman: Synecdoche, New York è il mio film preferito.