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Italo Calvino, lo scrittore sugli alberi
“Il barone rampante viene sempre valorizzato, soprattutto a scuola, più per la storia d’amore che per la tematica politica e sociale che contiene, ovvero quella di un nobile che d’improvviso rifiuta i propri privilegi. Questo grande discorso, però, di coscienza civile che percorre tutte le pagine è l’essenza del libro. E andava assolutamente valorizzato”.
Duccio Chiarini e Italo Calvino. Un regista e uno scrittore. Un rapporto fecondo che nasce “nell’infanzia, poi si sviluppa negli anni del liceo e dell’università” ci assicura il cineasta. Ora è diventato il documentario Italo Calvino, lo scrittore sugli alberi, in anteprima alle Giornate degli Autori di di Venezia 80.
L’opera - prodotta da Panamafilm, ARTE’ G.E.I.E, Les films d’Ici, Luce Cinecittà in collaborazione con RAI Documentari e Fondazione Home Movies - Archivio Nazionale del Film di Famiglia - tenendo come punto di riferimento il romanzo, ripercorre la parabola biografica e intellettuale di un letterato tra i più amati e noti del nostro Novecento, a cento anni dalla sua nascita.
Duccio Chiarini, come nasce questo documentario?
"Mi è stata offerta questa possibilità dalla Panama Film, e l’ho colta subito con entusiasmo. Da parte mia, c’è questo grande amore per l’opera di Calvino che dura da tutta la vita: era un’occasione unica per approfondirlo e conoscerlo ancora”.
Le emozioni provate nel “conoscerlo ancora” in maturità, dopo l’infanzia e la gioventù.
"È stato molto emozionante, grazie a Giovanna Calvino, soprattutto accedere alla ricchezza infinita dei suoi archivi. Ho trasportato di persona ad Home Movies le pellicole degli Anni Venti del padre con le immagini di Calvino e del fratello Floriano da Villa Meridiana. Filmati in cui si vedeva il volto bambino di Calvino, lui che muove i primi passi, circondato da genitori, nonni, familiari. Altrettanto emozionante è stato accedere ai carteggi degli anni dell’Einaudi, e poter leggere le lettere a Chicita nel primo anno di frequentazione, all’inizio dei Sessanta. Perché nella scrittura privata si ritrovano alcune caratteristiche della sua opera di scrittore. Ho cercato di restituire, allora, queste emozioni al pubblico tenendole a lungo le immagini visibili nel documentario”.
Come avete condotto le ricerche ?
"La prima parte del lavoro è stata mirata alla ricerca del punto di osservazione del film sull’autore. Trovato ne Il barone rampante ci siamo dedicati a riletture, studi e approfondimenti di testi di Calvino e su Calvino. Poi si è trattato di scegliere le voci giuste da intervistare. E ogni volta che qualcuno ci donava degli spunti, andavamo a ricontrollare ancora. Una ricerca continua, con tante ripartenze”.
Perché usare Il barone rampante come cartina di tornasole?
"È stata una scelta abbastanza istintiva, avvenuta proprio in fase di studio. Partendo da un’intervista in cui Calvino ragionava sul ruolo dell’intellettuale nella società, ho capito di dover raccontare il rapporto tra uno scrittore e il contesto. Mi sono soffermato sulla grandissima delusione nell’essersi rendersi conto in maturità di cosa erano diventate le idee per cui aveva combattuto in gioventù, dopo l’invasione di Budapest del 1956. Questi fatti avevano una vicinanza evocativa con l’uscita del Barone, negli aspetti etici e politici. Il romanzo discute la necessità di mantenere uno sguardo dall’alto, una certa distanza sulle cose, oltre che un rapporto con la società, e Cosimo Piovasco di Rondò ne era la sintesi perfetta”.
Tra i temi calviniani toccati, infatti, c’è la molteplicità.
“È un dato di fatto in Calvino, ma anche un ostacolo a una narrazione lucida e precisa. Abbiamo deciso non di ignorarla ma non darla come dato di partenza perché sarebbe stato impensabile dovercisi misurare. Volevo soprattutto evitare un documentario antologico, per cui tanti avvenimenti importanti sono stati forse tralasciati: cercavo di fare luce su un aspetto significativo. Insieme alla sceneggiatrice (Sofia Assirelli, ndr) ho sviluppato una narrazione in cui il Barone diventasse un prisma per seguire il suo sguardo, la sua attitudine di guardare il mondo”.
Come ti aspetti che il pubblico recepirà questo lavoro e come vorresti invece che lo recepisse?
“Per me l’idea era trovare e consegnare un particolare angolo di lettura che possa restituire la bellezza, la complessità dello sguardo di Calvino. Sguardo che caratterizza l’infanzia, la formazione, ogni aspetto della sua vita. Solo così può diventare uno strumento per scoprire qualcosa di nuovo e per avvicinare chi non lo conosce”.
Senti che Calvino ha influenzato a qualche livello i tuoi film?
“È sempre difficile pescare da una molteplicità di voci, di riferimenti che ognuno assimila in un modo unico, quella decisiva. Più che influenzare il modo di lavorare, sento che certi incontri fatti in anni in cui l’identità si plasma condizionano lo sguardo, i punti su cui determini l’attenzione. Calvino è sicuramente uno di questi. L’attenzione, per esempio, di Marcovaldo ai fenomeni della natura, in maturità può essere letta come un grande manifesto di ecologia, ma da bambino si può interpretare con la purezza di uno che cerca qualcosa di vitale nella natura. All’università, poi, Il sentiero dei nidi di ragno e La speculazione edilizia sono diventati romanzi importanti. La sua è un’opera talmente vasta e articolata che ogni volta è come ricominciare da capo”.
Rimane un paradosso legato a questa vastità: Calvino è per antonomasia il campione della prosa visiva del nostro Novecento, ma il meno sfruttato al cinema. Perché?
“Per una sua dichiarata reticenza a queste collaborazioni. Da un lato aveva grande interesse verso il cinema, come palestra narrativa, come afferma nell’Autobiografia di uno spettatore. Il cinema lo aiutava nel raccontare con sintesi visiva (come in parte poi anche una certa letteratura americana). Oltre questa fascinazione per la sintesi, per la chiarezza, per la visibilità, c’era, però, la consapevolezza che la letteratura richiedesse uno studio matto e disperato. Non a caso ad Antonioni – che lo voleva come sceneggiatore di Blow Up, ndr –rispose di aver bisogno di spazio per creare i suoi mondi”.
Quindi cinema e letteratura erano espressioni inconciliabili per lui?
“Sicuramente Calvino aveva la coscienza che l’immagine letteraria e l’immagine cinematografica non coincidessero fino in fondo. La moglie Chicita ha mantenuto questa sua attitudine: raramente ha concesso i diritti di adattamento al cinema. Più in generale, secondo me, ha a che fare col modo diverso e non sovrapponibile di concepire l’immagine letteraria da quella cinematografica”.
Ora che Chicita non c’è più, se dovessi chiedere i diritti per adattare un suo libro, quale sarebbe?
“Sono talmente tanti e affascinanti che è difficile scegliere. Certo, la raccolta di racconti Gli amori difficili - non a caso i più adattati al cinema e in tv - resta molto interessante per delle dinamiche quasi da cinema muto. A pensarci bene, poi, La speculazione edilizia e La giornata di un scrutatore sarebbero libri splendidi da vedere su uno schermo, per non parlare delle Cosmicomiche...”