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Dino Risi (Webphoto)
Dino Risi non ama le celebrazioni. Riservato, esce raramente dal residence nel quale vive, a Roma, circondato da pochi fedeli amici. Qualcuno lo definisce solitario e schivo, ma al telefono è cortese e disponibile. Ride quando gli chiediamo se è vero che il primo film non si scorda mai. “È il primo amore che non si scorda mai – risponde divertito – il primo film è meglio dimenticarlo in fretta, perché porta con sé tutte le paure e le incertezze di quei momenti”.
Ottantasette anni, quasi 60 dei quali trascorsi dietro la macchina da presa, Risi non ha cerro bisogno di presentazioni, per lui parlano i film che ha diretto, i capolavori che ha firmato, Poveri ma belli, Il sorpasso, Una vita difficile, Il mattatore, l mostri, Profumo di donna, solo per citarne alcuni.
Maestro della commedia all’italiana, al cinema, racconta, lui ci arrivato un po’ per fortuna, un po’ perché dopo aver diretto circa una trentina di documentari e cortometraggi, mi sembrava un passo obbligato, un sogno. “Un mestiere come un altro. Un lavoro. Ho scelto quella strada perché mi piaceva e perché mi veniva bene". Del suo esordio ammette “di ricordare ancora tutto benissimo purtroppo. Prima di tutto perché le cose lontane sono ancora ben fisse nella mia memoria – spiega – mentre se gli si chiede quello che ho fatto ieri non so cosa rispondere. E poi, perché è stata una cosa molto emozionante. Non sapevo se dovevo dire prima ciak o azione. Pensavo sempre di sbagliare”.
Com’è iniziato tutto?
All’epoca c’era una legge che facilitava la produzione di film per ragazzi. Ebbi così l’idea di scrivere la storia di un gruppo di giovani che, giocando sulla spiaggia di fronte a un’isoletta in cui c’era un penitenziario, trovavano un giocattolo dentro al quale era nascosto il biglietto di un ergastolano che si professava innocente. Così aveva inizio la loro avventura. Alla fine riuscivano a far evadere il disgraziato, ma per errore facevano scappare la persona sbagliata, il vero gangster. Da qui il titolo Vacanze col gangster. Il film era interpretato da Mark Lawrence, che era all’epoca famosissimo, Lamberto Maggiorani, che era stato protagonista del film di De Sica, Ladri di biciclette, e un ragazzetto di appena 12 anni molto bello che si chi amava Mario Girotti e sarebbe diventato famoso molti anni dopo col nome di Terrence Hill.
Le era stato difficile trovare i soldi per dirigere il primo film?
No perché lo Stato dava degli aiuti e poi non era un film costoso. Lo avevamo girato in sole sette settimane nell'isola penitenziaria di Nisida. Ma devo tanto a un documentario molto famoso, Buio in sala, che avevo prodotto io stesso insieme a Diana Bonazzi con 600 mila lire. Siccome era diventato obbligatorio abbinare un cortometraggio in sala, pensai di mandare il filmato a Carlo Ponti. E lui fu ben contento di abbinarlo a Le infedeli di Steno e Monicelli. Il loro film però aveva avuto così poco successo che sui cartelloni appariva la scritta “Le infedeli – e in grande – abbinato al documentario Buio in sala di Dino Risi”. Grazie a quel successo Ponti mi diede 2 milioni e io, che stavo a Milano, pensavo fosse giunto il momento di tentare l’avventura romana.
Con il secondo, invece, com’è andata?
È sempre più difficile, soprattutto se il primo film va male come capitò a me. Se poi va male anche il secondo, fare il terzo diventa una vera impresa. Il mio secondo film s’intitolava Viale della speranza e si ispirava all’americano Viale del tramonto. Raccontava il viaggio di tre ragazzi che sognavano di fare il cinema e tutti i giorni, da piazza San Silvestro, prendevano un piccolo tram bianco e azzurro per andare a Cinecittà. Per fortuna dopo ho fatto un film che ha avuto un successo strepitoso, Poveri ma belli, e tutto è stato più facile.
Cos’è cambiato nel modo di fare cinema nei giovani di oggi rispetto al passato?
Lo spirito è sempre lo stesso. L’importante è l’idea, quello che riesci a raccontare. È come quando si compra una risma di carta e si possono scrivere I promessi sposi e tante stupidate. Molti di quelli che si danno al cinema oggi inseguono soprattutto il successo, la gloria. Ma bisogna avere talento. Non basta avere delle cose da dire, bisogna saperle raccontare. È pure vero che c’è bisogno anche di fortuna, riuscire a incontrare le persone giuste, avere la storia giusta al momento giusto. Coincidenze che si rivelano decisive.
La fortuna conta più oggi o contava più in passato?
l giovani oggi hanno molte più chance. Possono fare la pubblicità e un cortometraggio costa meno. Entrambe le occasioni sono una buona palestra per un debuttante.
Che consigli darebbe a un giovane che inizia adesso?
Di armarsi di pazienza, coraggio e tenacia. E di non avere mai paura di sentirsi dire di no. Avere voglia di rischiare. Indovinare le cose che sono nell’aria. Fare il film del tempo, questo è importante.
E lei che rapporto ha con il cinema adesso?
Non ho più voglia di combattere. Sono stanco. Ma sto lavorando a un’idea. Se va, se costa poco, se incontro il produttore e gli attori giusti… Cinema o televisione non ha importanza. Tanti film sono nati per la tv e poi hanno trovato successo in sala, l’ultimo è La meglio gioventù, prima ci sono stati quelli di illustri maestri come Fellini e Bergman. E poi tra poco ci sarà solo televisione, la gente non ha più voglia di andare a parcheggiare la macchina per vedere un film. Un problema troppo spesso sottovalutato. E poi si misurano molto di più soldi. È questa la vera chiave della crisi del cinema italiano e non aiuta i giovani ad andare avanti. Magari si fa un film bellissimo, ma si fa comunque più fatica a fare il secondo rispetto a una volta quando c’era solo il cinema.
Prima abbiamo parlato del film che si dovrebbe dimenticare sempre. E quello che lei non vorrebbe mai dimenticare?
Io non sono un nostalgico. Il mio vero amore erano le ragazze e i film mi servivano, qualche volta, per conoscerle. Naturalmente, tra gli oltre 50 che ho diretto, ci sono i miei preferiti, l mostri, Profumo di donna con il quale ho rischiato di prendere I’Oscar. Lo vinse però Al Pacino, che ora si è tolto anche le occhiaie come Berlusconi, con il remake americano. Ma lo meritava molto di più Vittorio Gassman perché il mio film era più bello. Gli americani avevano dimenticato la storia d’amore che era la cosa più importante.
Che storia le piacerebbe raccontare?
Questo non glielo posso dire. Magari mi ruba l’idea, la porta a Domenico Procacci (produttore della Fandango, n.d .r.), ci fa un film e vince l'Oscar al posto mio.