Ciro De Caro è nato a Roma ma l’accento lo tradisce “ho passato la mia infanzia a Battipaglia”. Si è fatto le ossa con la pubblicità per diversi anni e l’esordio è avvenuto con un film indipendente che è diventato un caso, per successo di pubblico e critica: Spaghetti Story (2013). Nel frattempo, ha realizzato altre tre opere, di cui Taxi Monamour, che è l’unico italiano in concorso nella rassegna autonoma delle Giornate degli Autori di Venezia.

Una bella soddisfazione.

Soprattutto per me, che ho incominciato questo mestiere per passione, senza sapere dove mi avrebbe portato. Ho avuto un colpo di fortuna con Spaghetti Story ma sto ancora cercando la mia strada.

Come costruisci una storia?

Non lo faccio. Non scrivo soggetti né faccio scalette. Ho un file in cui annoto frasi, segreti, avvenimenti cose curiose che alla fine confluiscono o meno in una sceneggiatura.

Bell’impresa per il produttore.

Non questa volta. Per Taxi Monamour (in sala dal 5 settembre con Adler), Simone Isola mi ha aiutato molto e ho seguito i suoi consigli. Con Spaghetti Story è stato l’opposto, ho scelto di realizzare un progetto con quattro amici, senza un vero budget. Poi ho incontrato Giovanni Costantino, che ha deciso di farlo uscire a Natale. Il film è rimasto in sala per mesi: mi mettevo in fila con gli spettatori che andavano a vedere un cinepanettone e gli facevo vedere il trailer per convincerli. A raccontarlo oggi sembra una follia ma dieci anni fa le sale straripavano di gente.

Qualche anno dopo hai realizzato Acqua di marzo.

È stato un errore e allo stesso tempo una lezione. Sono stato precipitoso e sicuramente il successo inaspettato di Spaghetti Story mi aveva tolto lucidità e soprattutto umiltà.

Poi è stata la volta di Giulia con Rosa Palasciano.

Un’operazione che sento vicina a Spaghetti Story, l’abbiamo scritta insieme, io e Rosa, ed ancora una volta era un progetto personale. Non ha avuto lo stesso successo di pubblico di Spaghetti Story ma le candidature di Rosa ai Davidi di Donatello e ai Nastri d’Argento mi hanno fatto capire che ero tornato sui binari giusti.

Torniamo a Taxi Monamour. Partiamo dal titolo.

È una battuta che ricorre più volte nel film. La protagonista (Rosa Palasciano) usa la macchina del compagno per rafforzare la relazione che ha con Cristi (Yeva Sai), scappata dall’Ucraina. Non c’è nessuna intenzione o tesi politica, volevamo con Rosa (che ha di nuovo scritto con Ciro la sceneggiatura, ndr) riflettere lo spirito dei tempi, aprire una piccola finestra sul mondo in cui stiamo vivendo. E poi si tratta di un lavoro più strutturato rispetto ai precedenti, cerco di rimanere fedele a me stesso e al mio lavoro, sperando in una crescita non solo professionale.

Qual è la tua idea di cinema?

Voglio fare film veri, realistici crudi, sanguigni. Uso poche inquadrature, gli attori devono sentire liberi di esprimersi, la musica deve essere essenziale come il trucco, praticamente inesistente.

I tuoi autori di riferimento?

Ermanno Olmi, John Cassavetes. E Verga, Manzoni.

Che cosa auguri al tuo film?

Che piaccia al pubblico. Che arrivi un messaggio, molto importante per me. Le due ragazze che si incontrano, non si capisce se si piacciano, se ci sia qualcosa di più di una simpatia. Nulla viene esplicitato. Mi ha fatto pensare a mio padre, scomparso di recente, per pudore non ci siamo mai detti “ti voglio bene”. Quante volte diamo per scontati i sentimenti, le relazioni?