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Alessandro Roia (foto di Lorenzo Pesce)
Nell’anno in cui attori e attrici debuttano alla regia, Alessandro Roia è una mina vagante. Anche perché, della sua opera prima, ha deciso di non essere il protagonista. “Ero consapevole dei preconcetti, mi sono messo in una situazione scivolosa. Ma avevo degli obiettivi. E penso di averli raggiunti”. Il suo esordio, Con la grazia di un Dio (titolo suggestivo: ci spiegherà il perché), presentato in anteprima nelle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori a Venezia e dal 30 novembre nelle sale, è il punto di arrivo di una carriera quasi ventennale.
È la storia di Luca (Tommaso Ragno) che torna a Genova dopo venticinque anni per partecipare ai funerali del migliore amico della sua giovinezza: qui ritrova i vecchi compagni, tutti convinti che la morte sia dovuta a un’overdose. Ma Luca non ci sta, inciampa nella memoria, si scontra con i fantasmi e, a poco a poco, disseppellisce la verità.
I personaggi sembrano tutti sospesi: né vecchi né giovani, né puliti né tossici, né incensurati né criminali. Come se fossero tutti degli incompiuti.
Stanno in una terra di mezzo. Hanno vissuto, sanno che il passato non può essere cambiato, non sono riusciti a completare un percorso. Galleggiano, hanno conti in sospeso. Eppure basta una curva per scoprirci in un’altra fase della vita. Luca ha accantonato un problema e, quando torna a Genova, quel vaso di Pandora esplode.
Perché Genova? Non la vediamo spesso al cinema, ma è come se entrassimo in una città misteriosa che in qualche modo ci è familiare.
Non abbiamo scritto (la sceneggiatura è firmata anche da Ivano Fachin, ndr) pensando a Genova, è stato il produttore Massimo Di Rocco a suggerirla. Avevamo in mente delle caratteristiche: una città che non fosse prigioniera della cronaca, con un’anima etnica e decadente, in cui battesse un cuore pulsante. E che fosse il frutto dei ricordi.
Come sono questi ricordi?
Fuorvianti: è una città plasmata dai ricordi di chi l’ha abbandonata, quasi idealizzata. L’abbiamo cambiata molto, con il direttore della fotografia Massimiliano Kuveiller e la scenografa Gaia Moltedo: oggi, per motivi di sicurezza, nei carruggi ci sono le luci, noi le abbiamo modificate con dei neon che danno un’immagine postmoderna, perfino cyperpunk. È la consistenza dei fantasmi.
È un film piuttosto duro.
Non volevo fare un film consolatorio. Il che non vuol dire che non ci sia una speranza, perché in qualche modo c’è, resiste. La speranza sta nell’opportunità di poter scegliere. Contro la libertà di chi con la grazia di un dio esercita un potere sulle vite altrui. È un film sulle oscurità e non sull’oscurità.
La durata insolita (74 minuti) indica asciuttezza: un modo per mantenere meglio il controllo?
Più che il controllo c’entrano gli obiettivi che mi ero prefissato: dirigere un film breve, girare in 35 mm, fare un noir che non fosse totalmente un noir, entrare in profondità nei temi che mi interessano. Un po’ come il cinema che mi piace.
Che cinema le piace?
Non è tanto un discorso di autori o di filoni particolari. Riguarda piuttosto il processo creativo, i meccanismi che lo muovono. A me piace quel cinema che riesce ancora ad eccitarti.
Perché ha deciso di non dirigersi?
Perché la chiave era proprio questa. Per due anni ho rinunciato a recitare, mi sono dedicato solo al film. Quando hanno accettato di partecipare, Tommaso Ragno, Maya Sansa e gli altri attori lo sapevano. La fiducia è nata lì. Mi hanno visto come il loro regista. E si sono esposti moltissimo.
Ragno e Sansa sono dirompenti, anche solo sul piano estetico. Raramente li abbiamo visti così. Ci voleva un attore?
In fondo non è proprio questo che un attore desidera più d’ogni altra cosa? Chi vede il film esce dalla sala e mi dice che Tommaso è bellissimo: è un tema. Non solo perché di norma viene usato diversamente, ma anche perché qui non è mai ammiccante. Non era facile stare addosso a un protagonista così per tutta la durata.
Da attore rifugge i cliché, evita di incasellarsi, esplora i generi dalla commedia al noir fino all’horror: mi sembra sempre ci sia sempre un fondo di irrequietezza.
Completamente. Vengo ancora considerato giovane, anche se l’anagrafe parla chiaro (ha 45 anni, ndr). Per anni molte persone – anche piuttosto importanti in questo settore – mi hanno detto che sono un attore atipico. E io non capivo, pensavo fosse un male, che mi pregiudicasse i ruoli da protagonista. C’era chi, scherzando, mi definiva un “infiltrato”: sul set mi distraevo, cercavo di capire come lavoravano le persone attorno a me, volevo sfruttare al massimo le occasioni che mi concedevano. Ho imparato tantissimo. Ora dopo aver visto Con la grazia di un Dio mi dicono di ritrovare la passione e l’attitudine che si intravedevano tanti anni fa.
Ora cosa si aspetta?
Non devo allungarmi la carriera, non ci sono calcoli. So di non poter raggiungere un grande bacino, ho girato un film piccolo e il sistema ha le sue regole. Ma sono stupito dalle critiche delle persone che lo stanno vedendo: hanno capito perché questo film è arrivato ora, perché l’ho fatto in questo modo, quale sentimento c’è dietro, come mi sento adesso.
Con la grazia di un Dio è una produzione Bartlebyfilm con Rai Cinema, prodotto da Massimo Di Rocco, Luigi Napoleone, distribuito da RS Productions in collaborazione con Mirari Vos.