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Prigione 77 © JulioVergne
“È stato un momento affascinante della storia della Spagna. In carcere tutti si sono uniti per chiedere qualcosa. Un grido di libertà che echeggiava fuori e che si è riproposto anche all’interno della prigione”. A parlare è Alberto Rodrìguez, il regista de La isla minima che ora (dall’8 giugno) porta in sala con Movies Inspired, dopo averlo presentato allo scorso Festival del Cinema Spagnolo e Latinoamericano, il suo nuovo film: Prigione 77.
Ispirato a fatti realmente accaduti (la fuga, nel 1977, di 45 carcerati dalla prigione modello di Barcellona, diventata poi la più grande evasione della storia spagnola) e cosceneggiato dallo stesso regista insieme a Rafael Cobos, il film racconta un movimento che unirà tutte le prigioni nella lotta per la libertà e che cambierà per sempre il diritto penitenziario e la società. È il 1977 e all’interno del carcere i prigionieri scontano pene eccessive in una “Prigione Modello” sovraffollata. All’esterno, nelle strade e nelle piazze sovraffollate, si celebra la recente democrazia dopo 40 anni di dittatura, ignari di un sistema legale profondamente fallato. Le carceri sono in una situazione deplorevole. I prigionieri sovraffollati che vivono in condizioni subumane cominciano a organizzarsi per rivendicare i loro diritti.
“Finiscono quarant’anni di dittatura e si entra nella democrazia, definita anche democrazia modello – racconta il regista –. È chiaro che chi deteneva il potere prima non è sceso a patti senza imporre condizioni. Abbiamo scelto questi fatti perché ci ha stupito che nessuno ne fosse a conoscenza. È stato un momento molto particolare: in un carcere si sono uniti tutti i prigionieri per chiedere qualcosa che li univa”.
Come si è documentato per fare questo film?
Abbiamo iniziato nel 2005 la preparazione e proprio nel carcere dove si svolge l’azione, considerato un carcere modello. Dal punto di vista dell’architettura era identico. Però i diritti umani nel frattempo sono cambiati. Ci siamo documentati moltissimo, ho parlato con avvocati, detenuti, funzionari, giornalisti e raccolto anche molto materiale dai libri.
Quale il suo rapporto con il genere carcerario? Ha attinto a qualche film di questo genere cinematografico?
È un dramma carcerario, un film sulla fuga dal carcere, ma anche un film di denuncia – risponde – che rientra nel genere carcerario, ma io uso sempre il genere come una struttura, uno scheletro su cui poi poter imbastire e sviluppare tutta la storia come ho fatto poi per altri miei film.
Che pensa del sistema carcerario e del dare una “seconda possibilità” ai detenuti?
Il sistema non è fatto per dare seconde possibilità. Si parla tanto di reinserimento e di rieducazione dei detenuti, ma di fondo quello che si vuole è che ci sia un posto dove queste persone vengano tenute. In carcere ci sono gli immigrati: prima erano quelli che venivano dal sud della Spagna, ora sono quelli che vengono da altre parti. Sono comunque sempre persone che vengono da condizioni di povertà e che non hanno poi la possibilità di ricostruire qualcosa.
Però nel tempo le regole dentro le carceri sono cambiate.
Sì, è vero, sono cambiate. Prima non c’era il vis a vis e la possibilità magari di vedere la propria moglie o di avere un contatto intimo con qualcuno. C’era un modulo a parte per omosessuali, tra l’altro divisi fra loro tra congeniti e acquisiti. Una follia. Una volta l’anno vado a tenere una conferenza tramite una ONG nelle carceri e la sensazione non è più così orribile come un tempo. Mi chiedo però come abbiano potuto sopravvivere a Siviglia, con 45 gradi e senza aria condizionata, in queste celle minuscole. Non è concepibile questa punizione di cui parlano tutti e cioè che il tuo tempo appartenga a qualcun altro.
Nel cast Miguel Herràn (La casa di carta, Elite) nei panni di un giovane contabile condannato a un’esagerata pena di vent’anni di reclusione per essersi intascato l’equivalente di 1200 euro e Javier Gutiérrez (La isla minima, Il movente, Sotto lo zero) nel ruolo del suo compagno di cella.
Avevo già avevo lavorato con Javier Gutiérrez ne La isla minima e Miguel Herràn ha fatto una prova eccellente. Non avevo visto La casa di carta, è un ragazzo con un’energia meravigliosa che ha capito subito la storia. Tutti gli attori sono diventati un gruppo molto coeso e ora hanno un gruppo whatsapp tra secondini e prigionieri.
In questo film dunque Alberto Rodrìguez racconta la trasformazione della società, le sofferenze e le speranze dei detenuti e come nacque il COPEL (Comitato Coordinatore dei Prigionieri in Lotta): un movimento che riuscì a diffondersi nelle carceri di tutto lo stato per migliorare le condizioni disumane e deplorevoli in cui vivevano i detenuti a quei tempi.