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Giuseppe Schillaci
Se fossimo in una fiaba, Bosco grande sarebbe un’indicazione geografica tipica. Siamo invece a Palermo, in un quartiere che una volta si chiamava così e di cui, abitanti a parte, oggi tutti ignorano l’esistenza. Come un residuo scorticato di memoria, il fantasma di un luogo e di un tempo che esiste ancora e non più. Con Bosco grande , alle Giornate degli Autori – Notti Veneziane il 4 settembre, continua a perlustrare questi spazi di confine lo scrittore e regista siciliano Giuseppe Schillaci. Octavio Paz li avrebbe chiamati i luoghi del tra: “Sono affascinato dalla realtà che non si sa fino a che punto faccia parte delle cose reali. Un mondo di memorie, di sogni e di fantasmi”. Come quello del Modernissimo, storica sala bolognese che Schillaci aveva rievocato in un affascinante ed evanescente documentario, un girato strappato alla polvere del tempo come un reperto trovato tra le bobine e le pellicole abbandonate nel vecchio cinema dismesso e riaperto qualche mese fa. Un’altra storia di spettri: “È il lascito di una certa cultura siciliana, dei Pirandello e dei Consolo. Una cultura grottesca, sognante, iperbolica. Un tratto anche dei miei romanzi. Ne L’anno delle ceneri non c’è più dicotomia tra il mondo materiale dei fatti e il mondo magico delle visioni, delle credenze. Sono attratto da questo interregno, uno spazio dove tutto è possibile”.
Uno spazio che, come quello delle fiabe, dice molto anche della realtà storica.
Provengo da un universo di estrazione popolare. In Bosco grande a Palermo ho ritrovato la confusione di realtà e immaginario della mia infanzia. La fantasia e la superstizione come chiavi per capire il mondo. Questo spazio ha rivelato cose della Sicilia che ignoravo.
La scena punk siciliana degli anni 80.
Un paradosso perché in effetti questa scena non c’era. Si trattava di un gruppo di venti persone, fatta di darkettoni, skin, seguaci di quella cultura alternativa che stava emergendo proprio in quegli anni lì, durante la guerra di mafia, con il coprifuoco. Non si usciva la sera, non c’erano luoghi per i giovani. L'idea di conquistare territori urbani con i propri corpi, stando in piazza, inizia a quell’epoca.
Bosco Grande è l’epicentro di questo movimento.
Era un rione minuscolo, fatto di quattro strade, dove una volta si facevano le feste popolari con i cantanti napoletani. Oggi si è molto imborghesito, è stato assorbito dalla vicina e ricca Via Catania, e si chiama Via Marconi.
Il tuo film racconta le ultime tracce della natura popolare del quartiere.
Più che Bosco sarebbe meglio chiamarlo sottobosco: un quartiere popolare con il suo reticolato di relazioni, più o meno legali, di cui il mondo manifesto altoborghese sa poco o nulla. E al centro il suo re: Sergio. Lui è sempre lì, non si sposta.
Un personaggio enorme, non solo per il peso. Un personaggio che sembra uscito da un film di Ciprì e Maresco. Come ne sei venuto a conoscenza.
Grazie a una comune amicizia, Fabio Sgroi, fotografo de L’Ora che ha lavorato con Letizia Battaglia. Fabio era stato un chitarrista, uno dei protagonisti della scena punk di quegli anni. È allora, per gioco, che inizia a fotografare gli amici che frequentava. Una serie di ritratti che poi riunirà nel libro Early works 1985-1987. Nel vedere queste foto, gli chiedo che cosa facciano oggi queste persone. Lui mi parla di Sergio, che è sempre stato lì a casa sua, che fa il tatuatore e che ora pesa quasi 300 kg. L’ho rintracciato, ci siamo guardati e abbiamo capito immediatamente che dovevamo fare un film insieme.
Che cosa ti ha colpito di Sergio.
Mi ricordava gli anni d'oro della mia adolescenza a Palermo, dove ho vissuto fino a vent’anni. Ha attraversato gli ultimi 40 anni di storia siciliana rimanendo isso sul trono del suo quartiere. Personaggio incredibile.
In Sergio sembrano fondersi due qualità tipiche della sicilianità: lo spirito dissacratore e la pulsione autodistruttiva.
Assolutamente. Prendi il suo corpo enorme. È quello che dice: Io esisto. Lui ostenta con strafottenza quello che non vogliamo vedere, il rimosso. Sergio è coscientemente un guastatore, ha uno spirito ribelle. Lui crede di essere bello, e in effetti c'è bellezza in quel suo corpo. Lui abita il tragicomico, quel sentimento che unisce la Sicilia all’Italia. E che ha fatto la fortuna della grande commedia.
Un personaggio alla Maresco.
Adoro il cinema di Maresco ma non penso di avere la sua ferocia. A differenza sua, io quel mondo lì io lo amo forse perché me ne sono andato e la malinconia mi ha addolcito. Quando dico che c’è bellezza nel suo corpo dico il vero. Ho provato a cogliere con la mia camera questa rotondità plastica, degna di un Budda.
In definitiva di che cosa parla Bosco grande?
Del ritorno di qualcuno che se n'era andato. Inizialmente volevo fare un film su quella scena punk. Ma poi mi sono reso conto che erano andati via tutti e a rimanere erano stati solo Fabrizio, il cantante di Rockabilly, Fabio Sgroi e Sergio. In un certo senso parla sia di persone che vanno via e che tornano come me, sia di coloro che sono rimasti. Dei lumpen di un mondo popolare antico e postmoderno insieme. Di quanti vivono ai margini ma con una voglia una vitalità incredibile. Sono punk ma non sanno di esserlo.
Progetti all’orizzonte?
Sto lavorando a un documentario nuovo, prodotto e girato totalmente in francia in una banlieu parigina. Un’altra perlustrazione dei mondi di mezzo, a cavallo tra documentario e finzione.