Come sta il film sentimentale? Che, intendiamoci, non è sempre sovrapponibile al melodramma o solo convergente con la commedia romantica. È qualcosa di più trasversale: non è un genere piuttosto un tema, tant’è che sentimentale può esserlo anche un noir (il cinema classico ce lo insegna, Michael Mann ce lo ribadisce) o perfino un’avventura sci-fi (d’altronde, le emozioni sono più forti della gravità).

Ma c’è una riflessione da affrontare se un pur avvincente fotoromanzo sulla violenza domestica come It Ends With Us – Siamo noi a dire basta di Justin Baldoni viene venduto e recepito – complice lo star-power della sua attrice e produttrice, Blake Lively – alla stregua di una rom-com strappalacrime con sbocco empowerment femminile.

Negli ultimi anni, diciamo dopo la grande crisi dei subprime che ha un po’ cambiato l’orizzonte dei sogni e dei bisogni, i film su – e dentro, attraverso – i sentimenti hanno messo in scena l’idea dello strappo, della rottura, della spersonalizzazione. Come se il distacco dalla persona amata conduca ineluttabilmente a uno spaesamento nell’immaginario, alla metaforica amputazione di un pezzo del proprio corpo.

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Blake Lively and Justin Baldoni star in IT ENDS WITH US.

L’amore come assenza fisica e squarcio interiore sembra essere la grande costante: lo dimostrano quei film che hanno davvero dialogato con il pubblico al di là delle contingenze distributive, specchi su cui riflettere esperienze personali e occasioni per innescare processi d’identificazione. Pensiamo a La La Land di Damien Chazelle, con quel memorabile finale che restituisce l’ipotesi di una vita non vissuta se non nel sogno del musical (il “what if” è un’altra figura ricorrente di questi titoli) e un incrocio di sguardi per dirsi addio. O a Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, con il saluto alla stazione, una telefonata per rivelare una nuova fase e il lancinante primo piano di Timothée Chalamet mentre divampa il fuoco nel camino.

Sono stati grandi successi all’uscita e sono diventati fenomeni sul lungo termine e, al pari di A Star is Born di Bradley Cooper, revival di uno standard strutturato per esaltare la chimica dei protagonisti e il coinvolgimento emotivo del pubblico, rinunciano al più comodo degli happy end, spiattellando l’evidenza che l’amore è meritevole di essere ricordato dacché si confronta con il trauma della fine, dell’abbandono, della morte.

La filosofa Claire Marin l’ha spiegato bene nel saggio La fine degli amori, dove si confronta con molti romanzi e con il sempre fondamentale Frammenti del discorso amoroso di Roland Barthes: “È nel cliché che si ritrova la precisa verità: che una coppia si rompa non significa che gli ex amanti litigano. Ma che cercano realmente di tirarsi fuori da una materia comune, da un corpo affettivo, ma anche dal corpo fisiologico che la loro coppia aveva creato… Il tuo corpo così vicino è un’estensione del mio, come un nuovo regno del mio essere. Colui che si estrae da questo corpo comune, da questa chimera affettiva che l’amore ha creato, condanna l’altro a deperire con un moncone di corpo straziato”.

Chiamami col tuo nome
Chiamami col tuo nome

Chiamami col tuo nome

(Webphoto)

Vale anche nel panorama post-umano, dove quel “corpo comune” può essere anche costruito da un uomo e un sistema (Lei di Spike Jonze) o da due “involucri” (Another End di Piero Messina): tanto, al di là della tecnologia, ogni epilogo interroga comunque il cuore di chi viene abbandonato.

Il cinema degli ultimi anni sembra incapace di scindere l’esperienza dell’amore da quella della sua fine (Un lungo viaggio nella notte di Bi Gan ne è un manifesto), che sia nel destino segnato dai cancer movie (Colpa delle stelle di Josh Boone, aggiornamento di Love Story, ne è il modello, ma We Live in Time di John Crowley si affida al potere del montaggio per affrancarsi dal filone), nei giri immensi che fanno due vite (le chiacchiere esorcizzanti di Les Choses qu’on dit, les Choses qu’on fait di Emmanuel Mouret, il dittico formativo The Souvenir di Joanna Hogg, i conti con quel che resta in I giovani amanti di Carine Tardieu, il ménage à trois di Passages di Ira Sachs, l’anarchia erotica di 99 lune di Jan Gassmann, la cavalcata grossier L’amore che non muore di Gilles Lellouche) nel rimpianto di ciò che è stato (da Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, con Adam Driver che legge al figlio l’elenco di ciò che Scarlett Johansson amava in lui e che lui stesso non aveva mai letto mentre lei li guarda piangendo, all’incontro notturno di Past Lives di Celine Song, passando per La persona peggiore del mondo di Joachim Trier, dove Renate Reinsve deve affrontare la malattia terminale dell’ex).

Paul Mescal in ALL OF US STRANGERS. Photo by Chris Harris. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
Paul Mescal in ALL OF US STRANGERS. Photo by Chris Harris. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
Paul Mescal in ALL OF US STRANGERS. Photo by Chris Harris. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 Searchlight Pictures All Rights Reserved. (Chris Harris)

È qualcosa che vediamo nitidamente nella filmografia di Andrew Haigh, per cui ogni storia d’amore è sempre una storia di fantasmi (altri casi notevoli sono La migliore offerta e La corrispondenza di Giuseppe Tornatore, Storia di un fantasma di David Lowery: un discorso che si esalta nell’epoca del ghosting): un breve incontro dal tramonto all’alba (Weekend: per inciso, la trilogia di Richard Linklater è una stella polare per molti autori di questa carrellata, si veda anche Stockholm di Rodrigo Sorogoyen e Théo et Hugo dans le même bateau di Olivier Ducastel e Jacques Martineau), un matrimonio alla prova di una verità nascosta (45 anni), un dilaniante mélo fantasy che trascende il realismo (Estranei).

L’assioma si ritrova nel percorso di Christian Petzold, un altro che non può fare a meno degli spettri per raccontare una relazione (Il segreto del suo volto, La donna dello scrittore, la sintesi di Undine), ma anche in François Ozon, erede della tradizione francese dell’amour fou e del connubio tra eros e thanatos (Estate ’85 su tutti), Christophe Honoré (il commiato di Plaire, aimer et courir vite) e Carlos Marqués-Marcet (da 10.000 km a Polvo serán è sempre una questione di congedi).

Così come nell’opera fiammeggiante del già citato Guadagnino: il cinema o è d’amore o non è, stregoneria (Suspiria), cannibalismo (Bones and All) o tennis (Challengers) sono sempre coreografie del desiderio, con Queer a offrirci lo struggente compendio del complesso discorso amoroso (“Sono disincarnato”).

La belle époque
La belle époque

La belle époque

Ma questa tendenza a scendere negli abissi del cuore non appanna i “film dei sentimenti” che invece puntano all’idillio e si oppongono alla frantumazione: resistono le commedie romantiche che adattano formule classiche a conquistate visibilità (Bros di Nicholas Stoller e Rosso, bianco & sangue blu di Matthew Lopez, Crazy & Rich di Jon M. Chu e Last Christmas di Paul Feig), ma anche sul fronte autorale ricordiamo almeno Marco Berger, l’Éric Rohmer di Buenos Aires che scommette su chi si promette l’eterno (da Un rubio a L’amante dell’astronauta), la tenerezza sensuale di Monia Chokri (La natura dell’amore) e l’ormai giustamente reietto Nicolas Bedos che sfida il tempo (Un amore sopra le righe e La belle époque).

E due miniserie: Normal People di Lenny Abrahamson e Hettie Macdonald, dal romanzo di Sally Rooney, manifesto di amore e dolore, gioie e crepe, bisogni e rabbia dei millennials, e Los años nuevos del già citato Sorogeyen scontorna dieci capodanni per raccontare la storia di tutte le storie d’amore.