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I cancelli del cielo
Cinematografo prosegue la riflessione su un fenomeno nuovo, ospitando il parere di autorevoli critici. Il secondo intervento.
Un recente sondaggio pubblicato dal britannico The Guardian rivela che, secondo un campione di duemila spettatori americani, la durata ideale di un film dovrebbe essere di 92 minuti. È la classica ora e mezza che ha contrassegnato la gran parte del cinema che abbiamo conosciuto e amato nel XX secolo. Ovviamente ci sono sempre state le eccezioni, da Via col vento (238’) a Il padrino (179’), da C’era una volta in America (230’) a Barry Lindon (203’), senza scomodare Lav Diaz o Edgar Reitz che della lunghezza monstre hanno fatto un’arte e un marchio autoriale. Ma di eccezioni si è trattato e sono appunto eccezioni che spesso hanno contribuito, proprio in quanto tali, a rendere leggendarie quelle creazioni – colossali anche per ampiezza oltre che per capacità di visione e persuasione.
Se oggi però stiamo parlando molto seriamente della durata dei film come di un tema teorico o quantomeno di un aspetto saliente che merita un ragionamento approfondito è proprio perché quegli standard sono completamente saltati e l’eccezione è (quasi) diventata la regola. Innanzitutto, bisogna dire che la moltiplicazione dei minuti vale sia per il cinema mainstream che per il cinema d’autore, senza troppe differenze se non rispetto alle opere prime che, come testimonia anche la programmazione della Settimana Internazionale della Critica di Venezia, restano all’interno dei 90/100’, certamente anche per motivi produttivi e di costi.
Da un lato abbiamo le statistiche che sconfessano il sondaggio del Guardian. Tra i maggiori incassi di sempre, infatti, ci sono nove film che superano le due ore, mentre tra i primi cinque troviamo ben quattro titoli che superano i 180 minuti: Avatar; Avengers: Endgame; Avatar: La via dell'acqua e Titanic. Quanto a Avengers: Infinity War non arriva ai 180’ ma si ferma ad appena 2 ore e 45 minuti. Dall’altro lato abbiamo la recente esperienza dell’81ma Mostra di Venezia, da cui parte questo speciale della Rivista del Cinematografo. È stato proprio il direttore Alberto Barbera, presentando il programma, ad avvertire, tra il serio e il faceto, giornalisti e critici di prepararsi al peggio – perché il muro delle tre ore di durata veniva sovente infranto dai titoli selezionati, con il picco del 215 minuti di The Brutalist di Brady Corbet, uno dei film di cui si è parlato di più e meglio al festival, e anche vincitore del Leone d’Argento per la regia e del prestigioso Premio Fipresci.
A bordeggiare le tre ore, in barba al celebre motto di quel simpatico buontempone di Alfred Hitchcock (“i film non devono superare la capacità di resistenza della vescica umana”) sono ormai opere di ogni tipo. Documentari e biografie, grandi saghe e lavori intimisti, commedie e drammi, per non parlare delle serie, le uniche che a buon diritto espandono la materia narrativa per definizione, ma che, in molti casi, anche illustri, approdano poi al cinema prima che sulle piattaforme anche a furor di popolo. Tra gli esempi più recenti ci sono Esterno notte di Marco Bellocchio, L’arte della gioia di Valeria Golino, Dostoevskij dei Fratelli D’Innocenzo, M. Il figlio del secolo di Joe Wright. Quattro titoli che non hanno sfigurato o non sfigurerebbero nella programmazione delle sale, in forma di maratona oppure in due parti. Insomma, l’esplosione della durata è un dato di fatto. Ma come si spiega?
Ci sono diverse ragioni che possono motivare il fenomeno, dall’effetto serie tv – nella modalità contemporanea che ha scardinato molti schemi della scrittura e della narrazione televisiva – alle conseguenze, in termini di abitudini di fruizione, della pandemia, dall’avvento del digitale che ha permesso di abbattere i costi e gli schemi di produzione rispetto alla pellicola al mutato atteggiamento dei produttori (che hanno lasciato cadere l’inveterato tabù della lunga durata, uno scoglio su cui molte carriere si sono infrante nella storia del cinema, ne è un sommo esempio I cancelli del cielo di Michael Cimino (1980), un kolossal che ha portato sull’orlo del fallimento la United Artists e che ha segnato in negativo la carriera del grande autore americano che Oliver Stone definì “il più faraonico dei registi”.
Da ultimo, citerei anche tra i motivi di questa tendenza la caduta dell’attenzione legata all’uso di device e social network. Sembra un paradosso, perché darebbe piuttosto un’indicazione nella direzione opposta, ovvero della predilezione per i formati brevi o brevissimi da vedere su Instagram e TikTok. Eppure, il paradosso potrebbe essere pienamente giustificato dalla necessità di ripetere, ribadire, insistere su concetti, situazioni, personaggi. Per catturare la capacità di adesione all’oggetto filmico da parte di uno spettatore distratto e molto sollecitato da ogni parte, incollato al display del suo smartphone.
Il ragionamento sul tempo del cinema, infatti, non può prescindere da un ragionamento sul tempo della vita. La rappresentazione che troviamo nell’audiovisivo, così come in letteratura, sembra in qualche modo replicare ed espandere ciò che noi tutti viviamo e sperimentiamo. In questo senso il cinema, che non può che essere specchio – per quanto deformato o deformante – della contemporaneità si pone, attraverso la durata, una interrogazione sul senso dell’esistenza, un’esistenza, la nostra di occidentali, quanto mai frantumata e sovraccarica di stimoli e merci.
Il tempo della vita, come teorizzava il filosofo francese Henri Bergson, è composto di momenti irripetibili, è interiore, è soggettivo. Nulla ha a che fare con il tempo misurabile degli orologi e dei cronometri. Il tempo della vita si identifica con il concetto di durata ovvero di continua creazione nella quale ogni momento, sebbene sia il risultato di quelli precedenti, è completamente nuovo ed inedito. Al centro di questa visione – che personalmente considero quasi una replica dell’esperienza compiuta da uno spettatore di cinema – è centrale il ruolo della memoria, che nel conservare le esperienze passate le fa interagire con gli stati di coscienza presenti, li riattualizza.
Qualcosa di molto simile accade nella sala buia – e sottolineo questo aspetto, perché una fruizione disattenta e non immersiva come quella della piattaforma o televisiva non produrrà gli stessi effetti sull’esperienza esistenziale e intellettuale dello spettatore – quando siamo di fronte a un’opera di durata monstre che ci costringe e ci induce a una tessitura in cui alle immagini che stiamo guardando si sommano le immagini mentali che quell’esperienza produce e richiama, il tempo perduto e il tempo ritrovato, come direbbe Proust. Siamo come portati fuori da noi stessi, dal recinto della nostra coscienza personale e circoscritta, e spinti in un territorio tutto da scoprire, inesplorato per noi.
Che sia quello di una grande saga o di un universo narrativo (come avviene ad esempio con i cine-comic) o che sia la visione di un autore, ecco che il nostro tempo soggettivo si disgrega per riaggregarsi in una diversa scansione che riscrive in qualche modo le regole del gioco, che ci porta in una dimensione onirica o piuttosto ci spinge all’identificazione. Questo a patto naturalmente che l’opera sia riuscita e degna della nostra attenzione e partecipazione. Altrimenti la lunga durata si trasforma soltanto in un’inutile e vana tortura, in cui ci troviamo di continuo a guardare l’orologio corrosi dalla noia e dall’impazienza, mentre la nostra mente perde il contatto con la visione per lasciarsi andare a fantasie, in un flusso di pensieri estranei al film. Solo il presente esiste, come affermava Sant’Agostino. E nell’eterno presente del cinema solo un tempo trasformativo e fertile merita di accaparrarsi il nostro tempo tanto prezioso.