Marlon Brando era un attore perturbante, di un genere sconosciuto prima di lui, portatore di un nuovo ‘metodo’ e di una sessualità aperta. Sempre indocile, sempre segreto, sempre ambiguo, tutto in lui era esagerato. Brando è stato grande subito, non è passato per i piccoli ruoli. Sapeva bene che la sua bellezza singolare e l’effetto che produceva sarebbero svaniti presto, troppo presto. Ci vorranno quindici anni, il tempo che durano le carriere degli dèi. Istintivamente cosciente della sua differenza, Brando fu un infaticabile inventore di gesti, di comportamenti, di allure. Malgrado lui, era l’attore migliore del mondo e resterà per sempre il re degli attori.

Un Re Lear di una sensibilità eccezionale, segnato da un trauma infantile che plasmerà tutti i suoi personaggi. Dal proletario polacco di Un tram che si chiama Desiderio all’americano dislocato e smarrito di Ultimo tango a Parigi, passando per Il Padrino, il colonnello Kurtz di Apocalypse Now o il maggiore impotente e segretamente omosessuale di Riflessi in un occhio d’oro, le sue creazioni leggendarie attingono alle sue emozioni fino a dare libero corso a manifestazioni di natura autobiografica. Ex ragazzo del Nebraska, preso in trappola tra un padre distruttore e una madre alcolizzata, trova riparo da quell’esistenza tumultuosa tra le braccia di Stella Adler e le quinte di un teatro in cui si forgia il prodotto più performante dell’Actors Studio. Brando ci mette del suo, un magnetismo violento e selvaggio, un soffio di voce leggendaria, un fraseggio di una dolcezza femminile che conferisce al suo corpo così ostensibilmente mascolino una leggerezza unica.

Marlon Brando in Un tram che si chiama Desiderio
Marlon Brando in Un tram che si chiama Desiderio

Marlon Brando in Un tram che si chiama Desiderio

(Annex)

Non possiamo limitare Brando al suo fisico ma va da sé che quel volto e quel corpo contribuirono largamente alla sua ascensione. Felino selvatico tormentato dal di dentro, si affidava all’istinto ma preparava meticolosamente i suoi ruoli infilando una t-shirt bianca (Un tram che si chiama Desiderio) o un chiodo nero come una seconda pelle (Il selvaggio), un’epidermide sensibile ai ‘colpi’ della vita. Un tram che si chiama Desiderio segnerà addirittura il trionfo cinematografico di un indumento, fino a quel momento considerato intimo e adesso mostrato in tutti i suoi stati: bagnato di sudore, macchiato, scollato, strappato a scoprire la schiena, il petto e una nuova “tensione” drammatica. Hollywood non si era mai spinta così in là nell’esibizione dell’erotismo maschile. Con una t-shirt Brando costruisce il suo mito, l’icona e il simbolo sensuale di una giovinezza americana in rivolta senza sapere perché, con gli anni e il ‘metodo’ lo distrugge. Prende peso e lo assume. Meglio, ci gioca, impegnandolo perpetuamente nei film e nelle performance, impegnandosi nella vita e nelle sue innumerevoli cause.

Ansioso di essere utile al mondo, corre da una battaglia all’altra e dona una lezione di eleganza vagando sul Ponte di Bir-Hakeim coi capelli in guerra e il cappotto cammello che toglierà solo per fare l’amore (Ultimo tango a Parigi). Appare sullo schermo nel bagliore crepuscolare dei suoi quarantotto anni suscitando un turbamento generale, selvaggio, cerebrale. Subito dopo, la bulimia l’obbligherà a incarnare personaggi truccati o celati nell’ombra pesata con la gravità dello sguardo. Si infligge quei “tagli” ma prima si mette a nudo nello psicodramma di Bertolucci, che ha la bella idea di prendere quello che resta della sua potenza erotica e di lasciarla lavorare. Massivo ma sempre seducente, Brando gira le sue prime e ultime vere scene di sesso esattamente com’è, un po’ invecchiato e un po’ ammaccato. Il cerchio si chiude, l’animalità suggerita al debutto di carriera è esposta a pieno schermo.

Marlon Brando durante le riprese di Ultimo tango a Parigi
Marlon Brando durante le riprese di Ultimo tango a Parigi

Marlon Brando durante le riprese di Ultimo tango a Parigi

(Eva Sereny / Iconic Images)

Lo stesso anno, il 1972, gira Il Padrino con Coppola. Sovrana, come la messa in scena, la sua interpretazione resta un modello di precisione e di evidenza. Marlon Brando è il fondatore di una dinastia mafiosa ma è pure il padrino cinematografico di un cast di giovani attori che gravitano attorno a lui, padre simbolico, loro antenato, loro modello. Al Pacino, Robert De Niro, Robert Duvall, Andy Garcia pagano un tributo di riconoscenza al “vecchio” mentre cercano di ‘ucciderlo’ e doppiarlo, che è poi il soggetto cruciale del romanzo di Mario Puzo. Tra la dizione di carta masticata, la mascella serrata e la famosa interiorizzazione psicologica del ruolo, Brando ispira generazioni di attori, almeno quelli che si affermano co-autori di un ruolo e di un film (Jack Nicholson, Dustin Hoffman, Harvey Keitel…). Tutti abitati dal personaggio, tutti sotto l’influenza di un fantasma chiamato Brando. Padre di Superman o di Johnny Depp (Don Juan De Marco), inciampa progressivamente in superproduzioni, riduce le confidenze pubbliche, colleziona ruoli sbagliati, giurando che saranno gli ultimi, e interpretazioni di splendida indifferenza.

Marlon Brando in Apocalypse Now
Marlon Brando in Apocalypse Now

Marlon Brando in Apocalypse Now

(Annex)

Poi nel 1979, tuona come un temporale. Col cranio rasato e l’eleganza di un Falstaff della giungla, Marlon Brando è il colonnello Kurtz nell’apocalisse di Coppola. Obeso, insaziabile, tirannico, quasi autistico, precipita nel nero di Vittorio Storaro. Non ci sono più vie di mezzo e l’unica alternativa è farsi animale o dio. Marlon Brando diventa la definizione stessa di mostro sacro, cristallizzando sullo schermo l’orrore conradiano e una resurrezione magnifica ma effimera. La forza oscura del mondo civilizzato sarà il suo ultimo grande ruolo. L’uomo che voleva creare un paradiso di luce a Tahiti si spegne nell’oscurità, solo, in rovina. La bellezza brutale sfuma, la lava si spegne. Prigioniero di ciò che era stato si confronta con la realtà e un corpo impossibile. Dal polo magnetico (Un tram che si chiama Desiderio, Il selvaggio) a quello totemico (Il Padrino, Apocalypse Now), dal carisma al caos e giù fino allo zen o all’inferno.

Autodistruttore compulsivo, Brando tira una riga, taglia col mondo e muore all’angolo. Il re è nudo ma lascia un’eredità. Non si recita più alla stessa maniera dopo Brando, che faceva tutto in contropiede, aveva un istinto formidabile del testo (ha reso giustizia alla lingua di Tennessee Williams come a quella di Shakespeare), dava l’impressione di inventare le battute nel momento stesso in cui le pronunciava, si affidava agli oggetti di scena (per trovare i personaggi), governava gli opposti (virilità-vulnerabilità), lavorava sulla complessità e le contraddizioni dei suoi protagonisti, inventava un nuovo tipo di attore e un destino come nemmeno Hollywood avrebbe potuto immaginare.