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Il primo giorno della mia vita (credits: Alice Colapietro)
"Per me che ho fatto anche commedie, questo film non è una deriva, ma rappresenta la voglia di affrontare temi scivolosi, oscuri, di fare un film su ciò che mi spaventa di più. Abbiamo avuto paura nel scrivere questa sceneggiatura. Ci siamo interrogati tanto, buttando intere pagine, cancellando tanti capitoli. Perché il rischio di essere ridondanti, banali, supponenti era enorme.”
Un uomo misterioso e senza nome si presenta a tre adulti e a un bambino proprio nel momento in cui hanno deciso di suicidarsi. Il patto è: una settimana del loro tempo, una in più, per capire le conseguenze del gesto. Al settimo giorno, ognuno potrà scegliere tra la vita e la morte.
In questo film prodotto da Lotus e distribuito da Medusa Film, in sala da giovedì 26 gennaio, Paolo Genovese adatta il suo romanzo Il primo giorno della mia vita (Einaudi, 2018) spostando la vicenda da New York a Roma: “Originariamente era una storia pensata nella Grande Mela, ma non per una particolare esterofilia -per fare un film internazionale non c’è bisogno di farlo in inglese e andare all’estero-, ma a New York è molto credibile perché la città ha un’aria magica, mistica, dove può succedere di tutto. In quel periodo c’era anche un’opportunità di coproduzione, Paul Giamatti, per esempio, aveva anche letto la sceneggiatura e gli era piaciuta. Poi è arrivata la pandemia che ha rallentato tutto, ma la voglia di raccontare questa storia è stata più forte.”
Sulla falsariga di The Place, un altro cast stellare che comprende, tra gli altri Toni Servillo, Sara Serraiocco, Margherita Buy e Valerio Mastrandrea. Un romanzo collettivo sull’opportunità di rinascere per cambiare vita e prospettiva sulle cose:
"Effettivamente, pensando a posteriori questo è un film sulle seconde possibilità” spiega il regista: “Penso che chiunque di noi abbia fantasticato di poter tornare indietro e scegliere magari un bivio diverso. Probabilmente questo tema riempie anche la mia curiosità narrativa, perché ogni volta che c’è un appiglio nella vita di tutti i giorni in cui si può tornare indietro o andare avanti diversamente, io la sfrutto.”
La scintilla che ha fatto scoccare la storia per Genovese proviene da fatti reali: “Il primo seme di questo film nasce dal documentario The bridge di Eric Steel che ha messo una telecamera sul Golden Gate a San Francisco per un anno -il ponte con il maggior numero di suicidi al mondo- per riprendere tutte le persone saltate giù. Poi è andato a intervistare i sopravvissuti. Il fatto curioso che ha colpito la mia immaginazione è che la quasi totalità di loro nei sette secondi che passano dal salto all’impatto con l’acqua, ha raccontato di avere provato un senso di pentimento, di aver voluto una seconda possibilità. Così sette secondi sono diventati sette giorni, con dei personaggi intorno e una drammaturgia. Per cercare di capire una cosa: perchè qualcuno che arriva a fare una scelta così estrema un istante dopo si pente?”
Lo spunto realistico non evita, però, il confronto con una pietra miliare della storia del cinema. Lo stesso cineasta ammette: “Il tema proviene da Life is beautiful di Frank Capra. Ma probabilmente Il primo giorno della mia vita è complementare: lì c'era un angelo che faceva riflettere su cosa sarebbe successo se non si fosse mai nati, qui c'è un uomo misterioso proiettato verso il futuro che ti fa guardare alle cose che potrebbero capitarti se rinunci a morire".
Si spiega anche così perché il personaggio incarnato da Toni Servillo rimane senza nome. Ancora Genovese: "Il personaggio di Toni è misterioso, ma rappresentativo di chiunque si incontra nella vita che potrebbe tendere la mano per provare a farci vedere le cose da un punto di vista diverso. Il primo giorno della mia vita, diversamente da The Place, è un film estremamente realistico ma spesso gli espedienti hanno qualcosa di misterioso, di favoloso, di fantastico.”
Per lo stesso Toni Servillo l’immedesimazione in una creatura così particolare è stata un banco di prova interessante: "É sempre un bene non trovarsi completamente a proprio agio nel personaggio che si fa perché sulle difficoltà si misura anche la passione, l’accanimento nel fare questo mestiere. Nel mio caso non era facile resistere alla tentazione di un personaggio che si chiama UOMO, che ha una condizione ultraterrena con delle caratteristiche terrene.”
Anche sulla sua identità ambigua, l’attore ha un’idea precisa: “Il personaggio è anonimo perché potrebbe incarnare una parte profonda dei quattro personaggi mai venuta a galla o quella che ha sempre resistito per mancanza di coraggio alle opportunità della vita. E rimane senza nome anche per evitare il più possibile un messaggio retorico, per esprimere solo un suggerimento che possa coinvolgere quante più persone possibili a cui può essere capitato di fare un certo tipo di pensieri”.
Anche Valerio Mastandrea che interpreta “un motivatore che non riesce più a motivare sé stesso”, ha condiviso con Servillo una certa difficoltà nell’approccio del personaggio: “Di Napoleone faccio molta fatica a parlare: é un personaggio con cui sono stato a disagio prima e dopo perché avevamo delle preoccupazioni con Paolo: utilizzare il linguaggio del cinema senza essere depositari di verità e indicatori di soluzioni. C’era il grandissimo pudore di rispettare anche quel senso inspiegabile di perdita e catastrofe che una persona può incontrare nella vita. Quindi abbiamo chiacchierato tanto, perché il personaggio era forse il più complesso o non ero in grado io di avvicinarmici in maniera molto naturale come di solito faccio. Dalla visione del film che ho avuto io, però, penso che siamo riusciti a non essere retorici. Napoleone, in più, è molto utile al personaggio di Toni, per muovere tra di loro qualcosa di più grande di tutti gli altri.”
Margherita Buy, invece, nell’incarnare Arianna ha incontrato meno difficoltà: "Il mio personaggio è una donna alla quale succede la cosa peggiore che può succedere nella vita: perdere una figlia per una casualità. Ho affrontato questo personaggio perché è pieno di rabbia, e rappresenta l’interrogativo della vita, della morte, di qualcosa che non sai cos’è. Si porta dietro sempre un dolore. E ha paura anche di perderlo. Per cui sono entrata dentro il dolore, facendomi anch’io molte domande. Questo set, infatti, é stata una situazione di crescita, perché il tema del suicidio è scomodo, un tabù che non si affronta mai perché se ne ha paura. Io, invece, penso che sia una grande apertura verso un problema che esiste. Il film è forse anche una metafora di quello che stiamo vivendo: siamo rinchiusi, non parliamo, siamo paurosi di tutto.”