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I pugni in tasca di Marco Bellocchio (1965)
È mancato, probabilmente, un cinema italiano organico al ’68. Nel senso dell’ortodossia del pensiero, del salvagente dell’immaginario, dell’attivazione di un circuito comune del desiderio. Studente e spettatore non dalla stessa parte della barricata. Non che il cinema non abbia partecipato, nutrendo l’Utopia di mitologie giovanilistiche, affratellando nel pubblico le medesime classi anagrafiche, rimodellando il divismo sui corpi nuovi e ribelli, allineando il consumo su epopee acerbe e spregiudicate, travolgente e brucianti. La cinefilia, lo ha raccontato benissimo Bertolucci in The Dreamers , è stata la miccia della contestazione studentesca, una straordinaria educazione alla vita sentimentale e politica nel buio di una sala. Perché è al cinema, più che all’inquadramento di Partito, che riesce meglio l’impasto di vissuto e di impegno, di trame esistenziali e militanti, del politico come prosecuzione del sentimentale, in un orizzonte generazionale unico e storicamente irripetibile di aspirazioni individuali fuse in destini collettivi.
Tuttavia il ’68 è più presente – altra questione è capire come - nel nostalgico cinema italiano di oggi (Il grande sogno, La meglio gioventù, Mio fratello è figlio unico, ecc…) che in quello di allora, dove la grande onda contestatrice sembra rifrangersi in una produzione più scanzonata e alimentare.
C’è però tutto un cinema d’Autore che fiuta il ’68, ne ha presentimento, ne coglie il sentimento, ne anticipa il risentimento. Film che non parlano direttamente del ’68, ma che hanno la capacità di destrutturarne il discorso, di fotografarne le contraddizioni, di prefigurarne le cadute. Come I pugni in tasca che, uscito nel’65, conobbe un clamoroso successo solo tre anni dopo, proprio per la ritrovata sintonia con un’epoca segnata dal rifiuto del conformismo piccolo-borghese e della famiglia tradizionale, in grado anche di anticiparne la rivolta patologica sussumendola nell’indigesto personaggio di Lou Castel. Un modello replicato, con risultati espressivi decisamente inferiori da Samperi (Grazie zia), Faenza (Escalation) e Frezza (Il gatto selvaggio). Rinnovato dal Pasolini di Teorema, pur partendo da premesse ideologiche e stilistiche completamente diverse: qui la famiglia tradizionale viene distrutta non dal suo interno ma dall’intervento di un Ospite misterioso (Terence Stamp) che sedurrà uno dopo l’altro i suoi membri. Il suo potere è tale da poterlo considerare a un tempo sacro e diabolico. L’Ospite, suggerisce Pasolini, incarna la forza primitiva del desiderio che, una volta liberata, minaccia di distruggere la società borghese e le sue coperture psicologiche e morali.
D’altra parte, l’altro grande bersaglio della contestazione studentesca era stata la coppia, conseguenza e fondamento delle strutture di potere dominante. Da qui gli esperimenti più o meno falliti di relazioni alternative, aperte, dalla sessualità libera. Un fronte ideologico che Ferreri smonta con ironia e lucidità ne La cagna, dove “l’intellettuale” impersonato da Marcello Mastroianni, ritiratosi a vivere su un’isola deserta, intreccia una relazione di amore e sopraffazione con un’altra naufraga della civiltà (Catherine Deneuve), la quale pur di non perdere l’affetto e la compagnia dell’uomo è disposta a tutto, pure di prendere il posto del suo cane.
Chi volesse invece indagare cinematograficamente la fase più virulenta del movimento, quella dello scontro frontale con lo Stato e con il Capitale, deve necessariamente passare da Elio Petri e dal dittico Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971), entrambi splendidamente interpretati da Gian Maria Volonté; il primo un pamphlet ferocemente grottesco dell’arroganza del Potere, il secondo una rappresentazione poco consolatoria delle tante anime e delle troppe ambiguità implicate nel conflitto sociale. Il rivoluzionario stanco e il momento del reflusso sono invece il cruccio dei fratelli Taviani, che in Allosanfan, cercano di salvare il salvabile riscoprendo il valore del privato senza buttare a mare il senso della Lotta e la consacrazione all’Utopia. Il film è ambientato all’epoca della restaurazione (per la precisione in Lombardia, nel 1816) ma il sentimento è tutto post sessantottino, la metafora messa a bilancio.
Il fantasma del ’68 nel cinema italiano si rivelerà da lì a poco spettro sanguinario, nel delirio rivoluzionario dei brigatisti. Qui il cinema depone le metafore ma perde un po’ del suo peso specifico, l’urgenza è altrove. In mezzo a poche lodevoli eccezioni (Ogro di Pontecorvo, Tre fratelli di Rosi, Colpire al cuore di Amelio), bisognerà aspettare oltre trent’anni per avere il coraggio di non schivare gli Anni di Piombo. E guardarli in faccia, come fa Bellocchio in Buongiorno, notte (2003). Praticamente una soggettiva ad occhi chiusi di chi mostruosamente si ostina a estendere il sogno del ’68 oltre il dato di realtà. Bellocchio, che con i Pugni in tasca aveva anticipato la stagione dei film sul movimento studentesco, la chiude con un’opera che è il suo De profundis definitivo. Dalla fantasia al potere al potere della fantasia, il passo è grave: l’Utopia tradisce la sua natura illusoria mentre lo slancio vitale del rivoluzionario, sopraffatto da pulsioni nichiliste, si rivela un tragico salto della morte.