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La ricotta © Archivio Fotografico CSC-Cineteca Nazionale
Pier Paolo Pasolini, Enrique Irazoqui, i Sassi di Matera, il Vangelo secondo Matteo (1964), il più bel film su Cristo. E allora Franco Zeffirelli? No, non il Gesù bravo, buono e (troppo) bello, l’oleografia da acquasantiera, il santino col balsamo. Meglio La ricotta di PPP, e di lì le attualizzazioni, gli upgrade nel mondo e – Paolo non ce ne voglia - del mondo, le figurae Christi troppo umane, la redenzione e la perdizione, Il cattivo tenente di Abel Ferrara, la Bess delle Onde del destino di Lars Von Trier e – azzardo - la Charlotte Gainsbourg di Nymphomaniac. Sì, Cristo sul grande schermo ci è arrivato, sebbene Sant’Agostino (Discorso 183) ci bollerebbe eretici: “Il Manicheo non riconosce che Cristo è venuto nella carne”.
La retta via era tracciata, era off-Hollywood e dentro l’Italia, non solo cristologica, ma cristica. Era Pasolini, che con La ricotta, episodio del collettivo Ro.Go.Pa.G (1963), marcava indelebilmente la propria distanza dal biopic americano: un'opera di barocca vitalità, in cui Gesù diviene un "poverocristo", un sottoproletario costretto a confrontarsi quotidianamente con la fame e la disperazione. L’operazione muove dal meta-cinematografico: Pasolini utilizza la drammaturgia del film sul cinema per calare questo (in)consapevole dramma umano nella cornice di un lungometraggio estetizzante sulla Passione di Cristo.
Le stupende immagini a colori della Deposizione citano il Pontormo e Rosso Fiorentino, ma a differenza dell'acquiescenza zeffirelliana l'approccio pasoliniano rivela una tensione dialettica straordinaria, utilizzando il simulacro e la mise en abyme quali grimaldelli per accedere al sacro: il gioco non è (solo) intellettuale, dischiude orizzonti esegetici, attualizzazioni inaudite, associazioni temerarie. Cristo è qui e ora, e nemmeno Orson Welles può dirigerlo: la realtà proletaria rilegge il Vangelo, la rappresentazione cede all’accadimento, il pittorico all’esistente.
Nello Stracci inchiodato sulla Croce, che stramazza per l’indigestione del povero stroncato dall’improvvisa abbondanza, convivono fino alla morte i due versanti del perdono: buon ladrone aggiunto, è colui che chiede perdono; martire nell'indifferenza generale, è colui che perdona.
Finzione e realtà, arte e verità: non è forse la mimesi imperfetta dell'exemplum cristico, della pratica di vita nicciana? “Non è difficile predire a questo mio racconto – osservò Pasolini - una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”. Sarebbe bastato in un altro Paese, con un’altra sensibilità, senza paraocchi ideologici e veline beghine: PPP venne condannato dallo Stato italiano per vilipendio alla religione. E che fa? Non lascia, raddoppia, ritorna sull'argomento l'anno seguente con Il Vangelo secondo Matteo.
Fin qui il meglio film non solo su Cristo, ma di Cristo. Spogliato il Messia dai guanti di velluto delle precedenti ospitate sul grande schermo, Pasolini recupera la scandalosa bellezza della Buona Novella contestualizzandola nel Sud d'Italia tra gli sguardi trasparenti di attori non professionisti. Getta il sasso, anzi, i Sassi e non nasconde la camera. È il sequel de La ricotta: quelle meccaniche premesse (meta-cinema, meta-rappresentazione ardita e critica del pregresso corpus cinematografico su Cristo) sono ormai esplicitate e metabolizzate, il vangelo può risorgere su tabula rasa, elettrificata da PPP in corpo e spirito.
Alternando diverse modalità espressive (macchina a mano, guerrilla-style e rimandi alti alla pittura quattrocentesca), riesce a penetrare laicamente gli aspetti più disturbanti, crudi e rimossi del sacro: si pensi all'incontro del Cristo con i lebbrosi o alla crocefissione. Pasolini profana intimamente e – solo un apparente paradosso - religiosamente la tradizione cinematografica della vita di Cristo ripulendola dai maquillage edificanti, sfrondandola dal devozionismo, restituendola agli Stracci, ai poveri di spirito e allo spirito evangelico. Sì, accade qui e ora, i volti rubati alla vita per recuperare un’altra Vita, una Passione antica e vieppiù negletta: secondo Matteo, secondo Pier Paolo, V per Vangelo.
Rimane da chiedersi: sessant’anni più tardi, che ne è del Vangelo, che ne è della Ricotta? Di quest’ultima, a voler essere nostrani, potremmo dire che s’è mantenuta, che non è andata a male: letale la digestione, povero Stracci, felice la conservazione, della Cineteca Nazionale e nell’immaginario. Di certo se la passa meglio della critica cattolica, opponente all’epoca ed evanescente oggi: ha vinto Pasolini, ma non ogni speranza, per le pie penne, è persa.
Al 41° Torino Film Festival, il 27 novembre, la Rivista del Cinematografo organizza il convegno “Il gusto de La ricotta. Il corto di Pasolini e la critica cattolica, sessant’anni dopo”, per sondare imprimatur e interpretazioni, collisioni ed evoluzioni nel solco di un dialogo, quello tra cinema e Chiesa, invero mai venuto a mancare.
Più di mezzo secolo orsono, finì, ehm, a Stracci: Gian Luigi Rondi incolpò il film di “scivolare nella parodia più blasfema e sacrilega (e non di rado più sconcia) dei Testi Sacri in apparenza difesi”; il Codice penale tutelò la devozione cristiana dall’inteso (?) vilipendio; il Centro Cattolico Cinematografico bollò “sconcertante ed equivoca” la lettura dell’episodio evangelico; a processo il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”; Pasolini chiosò “dove il Cristianesimo non rinasce, marcisce”.