“Non credo al mito dell’imparzialità dell’informazione. Un esempio? Il New York Times ha chiesto a Biden di fare un passo indietro nella corsa alla Casa Bianca”, questa è la provocazione con cui Daniele Bellasio, vicedirettore di Il Sole 24 Ore, apre l’incontro dedicato al giornalismo e alla comunicazione alla quinta edizione del Lecco Film Fest.

“Non si può pensare che chi scrive non abbia la propria interpretazione. Ma i fatti devono essere raccontati con un’aderenza alla realtà, cercando di essere vicini a ciò che è davvero successo. Non mi piacciono i giornali che rispecchiano sé stessi, le proprie convinzioni, i pregiudizi. Si può cambiare opinione, se ci sono i presupposti. Il nostro compito è concentrarci sull’orizzonte, non chiudere chi ci segue in una bolla. L’obiettivo è fare un giornale che possa essere letto da tutti. Non significa essere anonimi o banali. I lettori sono anche il cuore della nostra sostenibilità economica, e questo passa attraverso un buon servizio alla comunità attraverso il nostro lavoro”, spiega Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera.

Prosegue Agnese Pini, direttrice di QN - Il Resto del Carlino – La Nazione - Il Giorno: “Nemmeno Chat GPT può essere imparziale, perché siamo noi a fornirle il punto di partenza. L’opinione è un genere nobilissimo. Bisogna essere molto informati. Non c’è democrazia senza giornalismo e viceversa, come diceva anche Fontana. Il rischio è confondere opinione con opinionismo. La colpa è anche l’uso smodato dei social network, con pollici alti e bassi. Ci sono sfumature, contraddizioni, che non si risolvono con giudizi diretti. Viviamo una crisi gigantesca, perché siamo all’interno della rivoluzione industriale più importante della nostra epoca: quella digitale. È costosa, complicata. I gruppi editoriali hanno meno soldi, sia per aprire piccole redazioni che per mandare inviati in zone di guerra. L’opinionismo invece è gratis. Guardare i talk in tv non significa essere informati, ma ascoltare le idee degli altri. Dobbiamo fare attenzione. Siamo deboli, perché è diminuito il potere contrattuale. Eravamo più forti davanti alle pressioni che si ricevevano da chi ci guida. Pensiamo a Montanelli: a 85 anni si è dimesso dal suo giornale, perché il suo editore era sceso in politica. E un anno dopo ha fondato un’altra testata. Le ingerenze si fanno sentire, ma questo è il nostro mestiere”.

Conclude Gianni Riotta, giornalista e direttore della Scuola di giornalismo della LUISS: “Giornalisti straordinari non hanno mai creduto all’obiettività, ma in qualcosa di molto partigiano. C’è stata questa tradizione, legata al passato. La crisi del giornalismo professionale non è tecnologica. Negli Stati Uniti è iniziata nel ’72, in Europa nel 1985. Le società si sono fratte, è diventato sempre più difficile rappresentarle. Questo pone un problema importante per la democrazia. Dirigo lo sforzo europeo contro la disinformazione in Italia, che ormai è ovunque. Ha raggiunto i media mainstream. È un pericolo, rappresentato anche dal tentativo di blindare l’informazione in Italia. Siamo affetti dal provincialismo, dalla paura di aprirci”.