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Il giardino delle vergini suicide
Prendendo in prestito il titolo da Faulkner, il cinema di Sofia Coppola potrebbe essere l’urlo e il furore dell’adolescenza. I suoi sono film di frattura, dirompenti nel loro essere quieti. Sono costellati di silenzi che si scontrano con emozioni fulminee e impulsi improvvisi. Il suo esordio dietro la macchina da presa festeggia venticinque anni: era il 1999 quando ha girato Il giardino delle vergini suicide.
Cinque sorelle, l’educazione ultraconservatrice dei genitori, il desiderio di libertà, una gabbia chiamata famiglia. Non ci sono soprese, il finale della storia è già nell’incipit. Sofia Coppola destruttura il mito degli anni Ottanta, alimentando l’effetto nostalgia (che viviamo ancora oggi) per un periodo che non tornerà più.
In Il giardino delle vergini suicide sembra di rivedere Stand by Me - Ricordo di un'estate (1986) di Rob Reiner. Sono molte le analogie: la voce narrante fuori campo, il flashback, l’amicizia, la morte come percorso di crescita, ma con un esito differente. I ragazzi di Reiner diventano adulti, mentre le protagoniste di Coppola annullano il loro isolamento con un gesto estremo. L’intento è di portare negli anni Novanta l’universo giovanile di I Ragazzi della 56a strada, diretto nel 1983 dal padre. La figlia lo volge al femminile, e scava ancora più a fondo creando un cantico della disperazione.
Qui la giovinezza è una colpa, è qualcosa che si vive attraverso il buco di una serratura. L’essere esiliati dalla propria realtà è un tema caro alle storie di Sofia Coppola. In Marie Antoinette (2006) incontriamo una futura regina ancora innocente, che invece deve abbandonare tutto per piegarsi alle imposizioni della corte francese. I privilegi non mitigano l’oppressione, esattamente come accade in Priscilla (2023).La moglie di Elvis è una ragazza che concretizza il sogno di tante coetanee. Ma presto il corteggiamento lascia spazio alle avvisaglie di una minaccia più grande.
La fascinazione per la celebrità appassiona le protagoniste di Bling Ring (2017), in costante ricerca di evasione dalla noia borghese. Ma la fama potrebbe non essere la soluzione, come viene raccontato proprio in Somewhere (2010). In Lost in Translation (2007) a scoprirsi senza una meta è la sposa che accompagna il marito a Tokyo. Qui le sbarre della cella sono bellissime vetrate e grattacieli illuminati. Si tratta di una prigionia a volte borghese, teorica, altre manifesta come in L’inganno del 2017 (remake di uno dei migliori film di Don Siegel: La notte brava del soldato Jonathan), dove a palpitare è sempre Il giardino delle vergini suicide, pietra angolare per una cineasta che ha trasformato la sua opera prima in una bandiera generazionale.