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Italo Calvino (Archivio Istituto Luce)
È stato un critico pigro e disallineato, mai un teorico, di rado soggettista e sceneggiatore (con un paio di eclatanti rifiuti), benché lo si indichi come il campione della visibilità del Novecento, scarseggiano lungometraggi tratti dai suoi romanzi (ne soffrì, anche se la tv si è servita più volte dei Racconti). La sua cinefilia (perché questo rimarrà, fino alla fine) è stata creduta a lungo trascurabile, ininfluente nel suo percorso (per diktat dell’autore e timidezza della critica), eppure il cinema ha circuito e plasmato a tanti livelli la vita di Italo Calvino. Lo conferma la quantità di interventi inediti e rari che emergono nel centenario della sua nascita (Palomar, invece, spegne quaranta candeline, Marcovaldo sessanta). Confermano un’idea di cinema come piacere, rapimento, assorbimento inconscio dei meccanismi (tradizionali e innovativi) di narrazione, come iniziazione erotica, come recherche du temps perdu (soprattutto in età adulta), e soprattutto, sempre, come produzione di senso per orientarsi nel labirinto della realtà.
La scintilla scocca subito: “andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno […] tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca della mia adolescenza”, annota nell’Autobiografia di uno spettatore. Hollywood è un balcone inghirlandato verso un altrove fascinoso e irraggiungibile in cui il ragazzo scopre i pilastri della sua narrativa futura: il comico (Charlot, Douglas Fairbanks, i fratelli Marx), il romanzesco, l’eros (Myrna Loy e Jean Harlow). Ma anche il western (John Ford di Ombre rosse), il poliziesco (Charlie Chan) e l’horror (Boris Karloff).
Dopo la formazione cinefila, ecco l’avventura di un recensore: nel primo articolo della sua vita, a diciassette anni, predice il successo di Totò, a ventiquattro quello della Mangano mondariso (amaro). Nel dopoguerra anche i film diventano dinamite per cannoneggiare l’Italia democristiana: Anni difficili (la recensione fu censurata dall’Unità) è un film “anti qualunquista per eccellenza”; Com’era verde la mia valle degasperiano; Monsieur Verdoux del “nuovo” Chaplin una satira contro il blocco statunitense ignorata dalla stampa di regime (“i finti tonti”); La marsigliese “un film che possiamo capire solo noi” (noi rivoluzionari e i borghesi no); L’infernale Quinlan un film “su Stalin”. Proprio la destalinizzazione e la crisi d’Ungheria sfiammano la febbre ideologica: Calvino condanna post quem lo zdanovismo cinematografico italiano (anche il suo). Perciò, negli anni Sessanta elogia Rocco e i suoi fratelli, La dolce vita e L’avventura come “tre possibilità attuali di metodo di espressione” e non di ideologia.
A metà decennio, poi, la fuga (dall’Italia e) dalla sala. Si rivolge all’astronomia, alla sociologia, alla filosofia. Quando non bastano più, però, si rintana nei cineclub parigini del Quartiere Latino: rispolvera tutta l’adolescenza cinefila, applaude I pugni in tasca, apprezza la New Hollywood e James Bond, elegge Losey (Il servo), Rosi (Le mani sulla città, ma anche Salvatore Giuliano e La sfida), Jacques Tati (Playtime), un certo Godard (Il maschio e la femmina) campioni del “film-saggio”. Snobba la commedia all’italiana (“guardarci direttamente negli occhi è difficile. La vitalità italiana è giusto che incanti gli stranieri ma che lasci freddo me”), si esalta con gli spaghetti-western perché eredi della letteratura cavalleresca e stronca gli adattamenti senza originalità: si salvano Senso, Il giardino dei Finzi Contini, Apocalypse Now, Il deserto dei Tartari, non Salò e Il conformista.
Anche così si spiega il favore per Fellini, cui riconosce “una conoscenza spirituale, magica” senza ascendenze letterarie, sin dai fumetti del “Marc’Aurelio”, passando per i Vitelloni e arrivando ad Amarcord, terrificante biografia di quella giovinezza fascista che il signor Palomar non riuscì a portare a termine: il “film di cui ci illudevamo di essere solo spettatori è soltanto la storia della nostra vita”. Negli anni Ottanta a Cinecittà i due appuntano insieme anche un film sospeso tra le Fiabe e Casanova perché il regista riesce navigare in una (meta)realtà in disfacimento: E la nave va, così, “funziona perché la nave che affonda è il grande mito del nostro secolo”. Come mitico è il cinema di Bunuel (l’epitaffio in morte è una gemma di humour ed enciclopedismo) o di Kurosawa (provate a sovrapporre i guerrieri Takeda di Kagemusha al Re in ascolto o a Kublai Khan delle Città invisibili, le differenze sono impercettibili).
Nel 1981, nel frattempo, torna da giurato a Venezia (città per antonomasia dell’immaginazione calviniana) e il cerchio si chiude: con ventuno film in sette giorni (più retrospettive graditissime, come quella su Hawks) il cinquantasettenne ormai celebre, cosmopolita scrittore ritorna puer cinematographicus, il cinema ridiventa tutto il mondo nel mondo: “Sono ormai condizionato all’assuefazione, il mio habitat è là dentro, il senso delle mie giornate si misura solo col numero dei film che ho visto”.