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© Archivio Giuseppe Zigaina
Che non sbracci e non si agiti, intima il regista a un’attrice, e che ricordi d’essere come gli altri inquadrati immobili, figura in una pala d’altare che si sta riproducendo sul set. Ne La ricotta di Pasolini, le riprese delle deposizioni del Pontormo e Rosso Fiorentino non si consegnano solo nel segno dell’ossimoro (la figura, secondo Fortini, ricorrente nell’opera del poeta), se immagini in movimento del film riproducono quelle “fisse” dei dipinti, né del solo rifacimento.
Il rapporto tra il cinema di Pasolini e la pittura, che La ricotta scopertamente esplicita, è più profondo, al di là del riferimento intenzionale di un’inquadratura a un dipinto. È qualcosa di più viscerale, un fiume sotterraneo che scorre nella sua filmografia. È proprio come possibile percorso nell’inconscio ottico del regista che si snoda quello della mostra Il corpo veggente (la seconda di un trittico, Tutto è santo, dedicato a Pasolini in chiusura del centenario dalla nascita, “diffuso” tra Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini e MAXXI di Roma).
È un’esplorazione della trama di intime risonanze tra dipinti, foto, pagine di libri, immagini del suo cinema, accostati e posti in successione come nel montaggio cinematografico e secondo una logica warburghiana, che da rimandi e relazioni fa emergere gli archetipi fondativi e ricorrenti del suo immaginario figurativo. Il che offre anche lo spunto per ripensare la pittura nel cinema di Pasolini come qualcosa di cui lo sguardo registico è intriso, e che modella una visione del mondo e del cinema, sedimento così profondo e personale da potersi rivisitare senza ridursi a calco o citazione.
Ha piuttosto a che fare con l’assimilazione e la personale reinvenzione del gesto (il pittore che Pasolini stesso interpreta nel Decameron, cercando nelle figure della “vita reale” l’ispirazione per l’affresco da farsi, mimava quello tipico del regista che prepara l’inquadratura, incorniciando l’occhio con le dita) che, attinto da certa pittura, innerva di volta in volta lo stile (tutto) del film. Così La ricotta. Il grottesco, l’invettiva divertita o amara, la comicità e la più nera tragedia, pietas e beffa: non è già in questo svariare nervoso di toni e registri del film, forse il più formalmente eccentrico di Pasolini, qualcosa della stessa esuberanza di colori e plasticità stravagante delle forme dei manieristi (come Rosso, come Pontormo)?
Quando, a digiuno di tecnica cinematografica, Pasolini inventa il suo modo di vedere in Accattone, non ha in mente soltanto i tanti autori visti e amati (in gioventù a Bologna, e a Roma poi: Dreyer, Chaplin, Mizoguchi, tra gli altri), ma anche i corsi di storia dell’arte di Roberto Longhi, verso il quale era in debito della propria “folgorazione figurativa”.
Le lezioni – sui Masolino e Masaccio, su Caravaggio che, nel ‘900, fu una riscoperta soprattutto sua – condotte col supporto di diapositive proiettate, e magari accompagnate dalla prosa poetica, incline al barocco, del docente, avevano anch’esse un che di cinematografico. La Conversione di san Matteo, del resto, era stata descritta da Longhi come un “fotogramma”. È a partire da quel substrato, quindi, che il regista pensa visivamente il suo cinema, con la complicità di Delli Colli conferendo apparenza sacrale ai volti dei borgatari (mossa non diversa da quella caravaggesca sulla plebe romana, in fondo), coi chiaroscuri violenti dell’obiettivo 50mm e una pellicola “dura” (la Ferrania).
In questo senso, passa soprattutto per la pittura l’espressione cinematografica di un sentimento religioso nel guardare, dello scoprire cose e persone come epifanie (Pasolini affermava, nei suoi scritti sul cinema, che “essere non è naturale”, e semmai portentoso, miracoloso, misterioso), e sacralità di volti e corpi che, spesso, attraversano delle Passioni o martiri (Accattone, Stracci de La ricotta, Ettore in Mamma Roma, e in senso più lato Medea o Julian e i cannibali di Porcile). I loro tratti, antichi, conservano quelli visti in Giotto, Masaccio, Piero (tra gli altri), e Pasolini vi ritrova quella “scandalosa forza rivoluzionaria del passato” ancora aliena o resistente alla violenta omologazione culturale che il capitalismo avanzato – e senza nulla di “sacro” – porta avanti.
Il regista diceva di muovere la macchina da presa come se avesse avuto dinanzi un quadro, uno scenario da “aggredire frontalmente”. Nei suoi primi piani, la macchina a mano è fissa e non ferma, lievemente tremula come l’occhio di chi investiga i volti di un dipinto e quella stessa qualità epifanica sa ritrovare nel mondo e ne fa inquadratura. Anche da “muti”, come appunto in pittura, con la loro presenza, volti e corpi parlano senza ricorrere alla verbalità. Ne parlano i compianti delle madri dolorose: Magnani con l’occhiata accesa di Mamma Roma, Susanna Pasolini nel Vangelo; o le iridi azzurrissime di Stamp che turbano Girotti, e quelle fonde e inquiete della Mangano in Teorema (dove due personaggi, per altro, sfogliano un libro con la riproduzione di un trittico di Bacon, altro pittore del corpo “patiens”, martoriato e urlante, intriso del repertorio iconografico cristiano-cattolico).
O, ancora, il ridere di Totò e Ninetto burattini morenti che guardano il cielo, nel gioco di specchi tra scena e retroscena, e l’interrogazione sulla verità informati al Velázquez di Las Meninas in Che cosa sono le nuvole?. L’ispirazione figurativa che accende l’invenzione formale di Pasolini fa dunque dello schermo, concepito quasi come superficie pittorica, il luogo dove, col linguaggio immediato della fisicità e della presenza, si dipinge la sacrale epifania dei corpi quando sono umani, quando l’umanità popolare in loro sopravvive, la risurrezione. La “faccia di antico camuso che Giotto vide contro tufi e ruderi” per farne santi, è la stessa di Stracci, con la sua testa che penzola sulla croce, povero cristo “pieno di pazienza”. E passione.