PHOTO
Munich (2005)
Proprio in questi giorni nelle sale italiane è possibile vedere One Life di James Howes. Si tratta di un dramma storico dignitoso, uno di quei film che una volta i critici avrebbero definito “necessari”. Protagonista è Anthony Hopkins, nei panni di Nicholas Winton, passato alla Storia come l'Oskar Schindler britannico per aver salvato la vita di oltre 600 ebrei durante la persecuzione nazista.
Tra poco meno di due mesi arriverà il ben più ambizioso La zona di interesse di Jonathan Glazer, a cui abbiamo dedicato l’ultima cover story della Rivista del Cinematografo. Anche in questo caso si tratta di un film sulla Shoah, ma dal punto di vista dei carnefici, una famiglia tedesca (lui è comandante delle SS), che vive di fronte agli infami cancelli di Auschwitz, tra agi e mostruosa indifferenza rispetto a quanto sta avvenendo letteralmente dall’altra parte della strada.
Si parla spesso di pericolo di oblio riguardo all’Olocausto, soprattutto man mano che i suoi sopravvissuti-testimoni scompaiono. È un rischio che il cinema sembra non correre, al punto che non si contano i film sulla Shoah prodotti negli anni. Questo non ha trattenuto i rigurgiti di antisemitismo che vediamo riaffiorare nelle nostre società. Talvolta in modo violento, in concomitanza con l’esacerbarsi dei conflitti in Medio Oriente tra arabi e israeliani. Quanto è avvenuto il 7 ottobre e quel che ne è seguito immediatamente dopo è uno di quei momenti.
Rispetto all’Olocausto, in cui è sempre stato chiaro chi fossero le vittime e chi i carnefici, oggi tutto è molto più confuso. Se da un lato stigmatizziamo la reazione di Tsahal nei confronti della popolazione di Gaza, perché la riteniamo eccessiva, dall’altra non possiamo non provare orrore di fronte alla barbarie scatenata dai terroristi di Hamas nei confronti dei giovani israeliani che partecipavano a un rave nel deserto e le pacifiche famiglie ospitate nei kibbutz al confine con la Striscia.
È stato un doppio shock morale. Rispetto al quale parlare semplicemente di orientalismo o di antisemitismo appare forzato.
Steven Spielberg, ebreo americano ma di posizioni progressiste, sconvolto da quanto accaduto il 7 ottobre, ha deciso ad esempio di raccogliere tutto il materiale disponibile per realizzare un documentario che racconti le atrocità commesse da Hamas. Spielberg, che si era confrontato in maniera indimenticabile con il tema della Shoah attraverso Schlinder’s List , che arrivava nelle sale americana proprio 30 anni fa, è anche l’autore di Munich , un film non compreso a pieno quando uscì ma che rivisto oggi si rivela lucidissimo nella messa a fuoco del conflitto tra israeliani e palestinesi gettandovi una luce profetica.
Non deve sorprenderci. Come ci ricorda Lisa Schwarzbaum dalle colonne del New York Times , “i film si trasformano e cambiano costantemente, offrendo nuovi spunti in relazione al tempo in cui li guardiamo”. Riguardare Munich in questo momento, continua la Schwarzbaum, “ci ricorda che l'arte a volte può pungere la coscienza laddove ore di commenti politici non fanno altro che addomesticarla”.
Spielberg non voleva farlo. Tre volte glielo avevano chiesto, tre volte aveva detto di no. Era un progetto rischioso. Politicamente, finanziariamente. Non aveva tutti i torti, almeno sotto il profilo economico: fu uno dei suoi più grandi insuccessi. Non venne risparmiato nemmeno dalle critiche di natura politica ma, almeno su questo punto, il film si sarebbe preso la rivincita. Alla fine, dopo cinque anni di tentennamenti, a convincerlo fu l’amica e partner di produzione Kathleen Kennedy.
Tratto dal libro Vengeance del canadese Gorge Jonas, ma riscritto profondamente dal premio Pulitzer Tony Kushner, Munich è un film senza eroi.
I fatti sono quelli del settembre 1972, quando a Monaco, in pieno svolgimento dei giochi olimpici, un gruppo di terroristi palestinesi si introduce negli alloggi degli atleti israeliani, sequestrandone undici. Falliti i tentativi di riscatto, li ammazzano tutti. Le immagini sono drammatiche, allora come oggi. La televisione fa quello che avrebbero fatto i social cinquant’anni più tardi: testimoniare, certo, e funzionare al contempo come arma retorica e strumento di propaganda delle parti in conflitto.
La reazione di Israele, anche allora non tarda ad arrivare. Il primo ministro Golda Meir (su cui proprio quest’anno abbiamo visto il biopic di Guy Nattiv, Golda) incontra generali e servizi segreti per ordinare un contrattacco altrettanto violento: “Oggi – avrebbe detto - abbiamo scoperto che ogni civiltà deve negoziare i suoi più alti valori con molti compromessi". Incaricato di stanare i terroristi e di liquidarli c'è un giovane burocrate del Mossad, Avner (Eric Bana).
Da Ginevra a Francoforte, da Roma a Parigi, Londra e persino Beirut (territorio proibito), Avner e il suo plotone si muovono dapprima tentennando poi con sempre maggiore sicurezza e sempre maggiore sete di vendetta.
Per un'ora e mezza sembra che Munich parteggi per gli israeliani, con Avner e i suoi attentissimi a non fare vittime tra i civili e a porsi interrogativi morali del tipo: chi stiamo davvero uccidendo? Sarà la fine del terrorismo? Poi tutto cambia. L’escalation di violenza non si ferma e, a ogni bersaglio abbattuto, i palestinesi rispondono con attentati e stragi.
Due scene in particolare posseggono una forza di rivelazione quasi insostenibile per gli spettatori di oggi.
Nella prima Kushner e Spielberg immaginano un incontro tra Avner e un palestinese di nome Ali. Mentre è stato diramato un temporaneo cessate il fuoco, i due uomini condividono uno scambio di battute che sembra agghiacciante e attuale come non mai.
Avner: Voi non avete nulla con cui negoziare. Non riavrete mai indietro la terra. Morirete tutti vecchi nei campi profughi, in attesa della Palestina.
Ali: Abbiamo molti figli. Avranno dei figli. Possiamo aspettare per sempre. E se necessario, possiamo rendere l'intero pianeta pericoloso per gli ebrei.
Avner: Se uccidete gli ebrei il mondo si sentirà male per loro credendovi animali.
Ali: Sì. Ma poi il mondo vedrà come ci hanno trasformato in animali.
Verso la fine Avner, la cui parabola da uomo pacifico a macchina da guerra si è ormai compiuta, dialoga con Ephraim, un vecchio compagno del Mossad: “Ho commesso degli omicidi. Quelle persone sono state rimpiazzate da altre ancora più feroci. A che cosa è servito?”, si chiede Avner. Sullo sfondo delle Torri Gemelle ancora intatte, Ephraim risponde: “Li hai uccisi per la pace. Se loro vivono gli israeliani muoiono”.
Munich non offre risposte, soluzioni o rassicurazioni. Non indica nemmeno una traccia di speranza. Il suo lascito più prezioso, ricorda sempre la Schwarzbaum, è “l’acume dell’intuizione, la comprensione del dolore di vivere in una zona grigia morale”. Nell’afasia della politica, la saggezza dell’arte non dice mai l’ultima parola. Ma qualcosa probabilmente di più definitivo.