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Il concerto
Sabato 15 novembre, alle ore 17:30, al Cinema Nuovo Olimpia di Roma, Radu Mihaileanu, presidente di giuria della XXVII edizione del Tertio Millennio Film Fest, sarà presente in sala per una masterclass, nell’ambito del format “Cinematografo Incontra” (per partecipare scrivere a festival@tertiomillenniofilmfest.org), che precederà la cerimonia di premiazione e la proiezione del film Il concerto (clicca qui per acquistare il biglietto). Tutte le info qui.
Durante gli Young People’s Concerts, serie di esibizioni musicali per giovani e famiglie trasmesse dalla televisione americana, un giovane Leonard Bernstein, già direttore della New York Philharmonic, dedicò l’appuntamento del 28 marzo 1958 alla spiegazione del “Concerto” utilizzando la quasi totalità della compagine del teatro newyorkese. Dopo aver spiegato l’origine latina del termine, scelse l’accezione del “gareggiare”, che poi spiegò anche come “realizzare insieme”, lo “stare insieme” dei musicisti. Quando si suonano tutti gli strumenti unitamente è più corretto parlare di sinfonia, specificò il Maestro, ma se uno o pochi strumenti solisti “gareggiano” con il resto degli strumenti è più appropriato parlare di concerto. Il concerto, infine, non deve essere considerato nel suo significato di collettivo poiché mancherebbe quell’anima che cerca l’armonia dell’insieme, delle differenze. Le parole del Maestro Bernstein possono essere applicate allo spirito intrinseco del film di Radu Mihaileanu, il regista romeno di origine ebraica che vive e opera a Parigi dagli anni Ottanta.
Tredici anni dopo ho rivisto Il concerto. L’effetto è quello che produce un bicchiere di vino, uno chardonnay frizzante, fresco, delicatamente fruttato e profumato. Il film di Radu Mihaileanu, presentato alla Festa del Cinema di Roma del 2009, continua ancora oggi a divertire e a commuovere in modo ironico, intelligente, delicato e appassionato, come le bollicine di un calice di buon vino bianco.
La storia è quella di Andrej Filipöv, direttore dell’Orchestra del Bolshoi, innamorato di Čajkovskij e del suo Concerto in re maggiore per violino e orchestra. La ricerca della “armonia suprema” era diventata l’ossessione del direttore d’orchestra, ma anche la sua dannazione. Il 12 giugno del 1980, non troppo lontani dalla “Perestrojka” di Michail Gorbaciov, ma neanche troppo idealmente vicini al crollo del Muro di Berlino (1989) e dalle sue conseguenze geopolitiche, Filipöv fu destituito in modo plateale, umiliante, dal prestigioso incarico nel bel mezzo dell’esecuzione del Concerto čajkovskiano. Aveva osato far fronte a Leonid Brežnev per difendere i musicisti ebrei dell’orchestra del Bolshoi. Vi restò a lavorare, ma come addetto alle pulizie, espiando l’orgogliosa richiesta di salvare i suoi orchestrali dall’epurazione richiesta dal capo di stato dell’URSS, il cui nome fa da sfondo alla narrazione del film.
Il sogno di fare i conti con un passato devastante, di risanare una ferita aperta e avere una rivincita gli si presenta davanti fortuitamente quando si impossessa di un fax spedito da Parigi. Il teatro Châtelet vuole l’Orchestra del celebre teatro moscovita nel suo cartellone. I tempi stringono e Filipöv mette in atto il suo piano di riscatto: riunire i suoi musicisti per conquistare Parigi e incontrare Anne Marie Janquet, una giovane virtuosa del violino famosa in tutto il mondo. Anche lei vuole conoscere il direttore d’orchestra che tenne testa a Brežnev, ma “Non c’è niente di eroico - si schermisce Andrej - erano i tempi”.
Quel branco di falliti e sbandati riuscirà a portare a termine il proposito con la complicità dell’antico direttore del Bolshoi, loro nemico dichiarato, anch’egli degradato e portatore di un desiderio inconfessato: ricostituire l’Internazionale a partire da Parigi.
Il racconto percorre l’intreccio dell’oggi narrativo con un passato svoltosi circa trent’anni prima. Si dipana tra trovate esilaranti e divertenti, di cui protagonisti sono i musicisti caduti in disgrazia, ebrei e zingari, dalla operosa creatività per sbarcare il lunario; nostalgici del comunismo ormai perestrojcizzato; ingombranti oligarchi che vivono nel lusso, straricchi economicamente, ma miseri e beceri culturalmente. Non mancherà loro di trovare gli stratagemmi necessari per conseguire l’obiettivo nella strettezza del tempo a loro disposizione.
Il rischio di cadere nello stereotipo di russi ebrei e gitani, esperti nell’arte del “tirare a campare” con soluzioni più svariate, si converte in uno degli elementi più originali e straordinari che rendono il film un capolavoro di divertimento, mai superficiale o scontato. Intensa la scena del gruppo dei sessanta orchestrali che si incammina ordinatamente a piedi verso l’aeroporto, richiamo di un “esodo” verso una terra migliore, dove il latte e miele si oggettiva nei cellulari potenti, nella disponibilità facile del denaro anticipato, o nella facilità di trovare lavoro data la loro ingegnosità. Tante le scene memorabili, tra cui l’incontro degli zingari in aeroporto, o la vendita dei cellulari nella hall dello Châtelet dei due strumentisti padre e figlio, o ancora il matrimonio kitsch dell’oligarca mafioso o, infine, l’organizzazione delle riprese di quello che finanzia il viaggio pur di suonare nell’orchestra, ma per il quale si dovrà trovare poi una soluzione necessaria. Scene che rivelano la capacità di costruzione di personaggi apparentemente secondari, ma che contribuiscono al “concerto” dell’intreccio da cui emergono dei solisti, Andrej, Sasha, Ivan e Anne Marie capaci di interagire con un’orchestra di differenze sino a raggiungere non solo musicalmente, ma anche umanamente, l’“armonia suprema” ricercata dal protagonista e direttore di orchestra. “Questo concerto è come una confessione – spiegherà Filipöv alla giovane violinista – un grido. In ogni nota c’è la vita, Anne Marie. Le note tutte cercano armonia, ricercano felicità”. L’armonia desiderata ricorda il direttore tedesco protagonista del felliniano Prova d’orchestra che la paragonava alla comunione, ma non vi riuscì ottenendo da quegli eccentrici e individualisti orchestrali l’esatto contrario: caos e distruzione.
Mihaileanu si rivela ancora una volta – come del resto aveva fatto con Train de vie. Un treno per vivere – un grande narratore di umanità e di sentimenti, di differenze culturali e di integrazioni feconde. La briosa e vivace narrazione richiama atmosfere alla Lubitsch e del primo Allen dove ciò che sembra caricaturale assume una eleganza e sagacia misurate. Anche la sfumatura sentimentale non è mai sdolcinata o affettata e si incastra perfettamente nella descrizione delle personalità implicate direttamente o indirettamente nel “fattaccio” del 12 giugno 1980: il passato a volte è un avversario insidioso da tenere a bada che può ripresentarsi con strategie nostalgiche e dolorose, a volte menzognere. Non si può far rivivere il passato, ma negli occhi degli orchestrali che hanno conosciuto Lea, la virtuosa del violino di trent’anni prima, è evidente la meraviglia di trovarsi davanti a tale bellezza e talento che la richiama alla loro memoria. “La musica aiuta a crescere, a dare a noi delle risposte. Non dobbiamo avere paura della musica, ma della verità”.
Il dosaggio di questi ingredienti arriva al cuore dello spettatore, che si diverte e si emoziona allo stesso tempo, grazie a una colonna sonora che li armonizza in modo funzionale, diegetico, ispirando commozione. Se in Train de vie la musica salva la vita dall’orrore dell’Olocausto, in questo film si eleva alla ricerca dell’armonia delle etnie, delle differenze e delle ricchezze culturali. La musica va oltre le ideologie che dividono, che mettono gli uni contro gli altri, che distruggono l’armonia. Il messaggio di Mihaileanu è più attuale che mai, chaplinamente pacifista e contro ogni discriminazione. L’orchestra è un mondo al quale ognuno contribuisce con il proprio strumento per creare armonia. Il disaccordo è caotico e stonato; l’accordo, invece, è eufonia, concordia, estasi. “La musica non è questione di aspetto: è bellezza, armonia, è cuore”. Ciò è tanto vero che un altro grande connazionale di Čajkovskij, Fëdor Dostoevskij, nel personaggio del principe Miškin de L’idiota, ci ricorda che “Solo la bellezza salverà il mondo”.