PHOTO
Speak No Evil (credits: Plaion)
In un bel saggio di qualche anno fa, La critica della vittima (Nottetempo, 2014), Daniele Giglioli spronava le società occidentali a superare il più delicato dei propri retaggi culturali: il vittimismo.
La vittima, sosteneva Giglioli, è l’eroe del nostro tempo. Funziona come uno stigma al contrario: essere vittima significa garantirsi il diritto a prescindere di avere ragione. Scagiona, immunizza da ogni critica, offre un’identità inattaccabile.
A metà strada tra l’autoassoluzione e il politically correct, l’apologia della vittima presenta però delle controindicazioni: è una corazza che prima difende ma alla lunga imprigiona. Riconoscersi vittima non invita all’azione ma produce paralisi. E se vanta un credito è sempre verso il passato, non verso il futuro.
D’altra parte, esistono diversi studi che hanno evidenziato la complicità delle vittime nel proprio martirio. Il caso più noto è quello dei kapò nei campi di concentramento, su cui pagine dolorosissime ha scritto Yosef Hayim Yerushalmi, fra i migliori studiosi di cultura ebraica.
Quale meccanismo spinge le vittime a collaborare con il proprio carnefice fino a consegnarvisi inerme? È possibile che il narcotico discorsivo della vittima irretisca e obnubili a tal punto da disinnescare ogni segnale di allarme facendosi persino beffe dell’istinto di sopravvivenza.
Questioni scivolose, che il sorprendente film danese in concorso a Tertio Millennio XXVI, Speak No Evil, affronta con angosciosa evidenza. A riprova da un lato dell’odierna vitalità del cinema del Nord Europa, dall’altra dell’inesauribile flessibilità dell’horror, che si conferma potente detonatore allegorico.
Scritto e diretto con mano sicura da Christian Tafdrup (44 anni, predilezione per le tormentate dinamiche di coppia mostrata in un paio di precedenti lavori e baldanzosa sicumera: “Volevo realizzare il film più inquietante nella storia della Danimarca”, ha dichiarato), Speak No Evil inizia con una vacanza rilassante sotto il sole della Toscana e si conclude con un tranquillo weekend di paura: in mezzo il viaggio senza ritorno di una famiglia danese, destinazione la classica casa nel bosco, di proprietà di una famiglia olandese.
Due nuclei all’apparenza speculari: tre componenti l’una - Louise (Sidsel Siem Koch ), Bjorn (Morten Burian) e la piccola Agnes (Liva Forsberg) – e tre l’altra - Patrick (Fedja van Huet), Karin (Karina Smulders) e il taciturno Abel (Marius Damslev).
Del resto “danesi e olandesi hanno molto cose in comune”, sentenziano le due controparti nel primo momento conviviale insieme in Italia, tra tagliatelle, vino e ricco contorno di cliché. Normali affiatamenti da famiglie in vacanza, tutto finisce lì.
E invece. Tornati nella grigia Copenaghen i danesi ricevono una cartolina con invito dai loro omologhi olandesi. Un fine settimana nella loro campagna, per rievocare le spensieratezze dell’estate. Un attimo di riflessione, di saggia esitazione, poi la decisione è presa: si parte. Da quel momento in poi il film cambia registro e, da commedia borghese di scambi e malintesi interculturali, si trasforma in thriller ansiogeno. Tafdrup è abilissimo nel distillare il perturbante dall’ordinario, mantenendo finché può l’ambiguità delle intenzioni e delle sensazioni, dilatando scena dopo scena la camera d’aria del dubbio e della tensione: chi sono realmente Patrick e signora? Che cosa vogliono dai loro ospiti? Sono i loro comportamenti semplici stravaganze olandesi o l’indizio di una minaccia più grave? Interrogativi che non riguardano solo la famiglia danese ma lo spettatore, con cui il film – non senza un filo di sadismo – sembra giocare a rimpiattino.
D’altra parte, sarebbe sbagliato concludere che Speak No Evil dispieghi la sua efficacia con fare manipolatorio, puntando tutto sul senso di insicurezza del pubblico. Il film non bara mai. Non lascia mai intendere deliberatamente una cosa per un’altra.
Fin dal principio – dal momento in cui la macchina di Bjorn e Louise approda nel resort toscano accompagnata dall’inesorabile gravità del contrabbasso dell’incisiva partitura orchestrale di Sune Kolste - dichiara l’ineluttabilità della tragedia. E semina indizi evidenti su quanto sta per accadere.
Proprio all’interno del resort c’è una sequenza eloquente: è una notte afosa e Bjorn non riesce a chiudere occhio. Si affaccia alla finestra in cerca di refrigerio quando, nel cortile di sotto, nota Patrick che appostato vicino al muretto di ingresso lo fissa. Un brivido di inquietudine sembra farsi strada in Bjorn che, tuttavia, preferisce voltarsi da un’altra parte. Finge di non vederlo.
Siamo appena all’inizio ma già allora il film mostra le sue carte. Indica soprattutto in Bjorn, l’uomo che preferisce voltarsi dall’altra parte, il driver della vicenda (driver non a caso, visto il peso drammaturgico e allegorico che l’auto ha nell’economia del racconto). È Bjorn a convincere la moglie ad accettare l’invito. È lui a esortare Louise, vegetariana dichiarata, a non essere scortese e a mangiare la carne che la coppia olandese le cucina. Ed è sempre Bjorn a far cambiare idea a Louise, quando la donna, esasperata dagli atteggiamenti sempre più strani dei padroni di casa, vorrebbe interrompere la vacanza in anticipo e tornarsene a casa.
Bjorn, magnificamente interpretato da Morten Burian (ma è tutto il cast a funzionare a meraviglia), è l’accondiscendente che porterà alla rovina la propria famiglia. L’uomo distratto, il cui sguardo non naviga a vista ma è la trave nell’occhio della moglie e della figlia. Gli occhi sempre più eccitati, sospinti dall’agitazione anarcoide di Patrick che sembra risvegliarlo dal torpore pasciuto della middle class danese, ne restituiscono la trance, da cui Bjorn si ravvedrà quando ormai è troppo tardi.
L’intera operazione trova in Bjorn la chiave della sua rivelazione: Speak No Evil non è il classico film di malcapitati nelle mani di feroci aguzzini ma una disamina acuta della fenomenologia della vittima. La passività di Bjorn, camuffata da perbenismo borghese, non vuole salvare le apparenze ma, vigliaccamente, salvare Bjorn medesimo e preservarlo da un conflitto che potrebbe far venire giù la sua identità di cristallo.
Ci sarebbe da discutere su quanto questa chiave narrativa parli all’Europa di oggi, dell’inettitudine di convenienza, dell’incapacità di cogliere i segnali di pericolo profusi da chi veniva considerato l’alleato vicino.
Il meccanismo della tensione si regge non sull’identificazione tra lo spettatore e la vittima ma sulla loro disgiunzione: vorremmo entrare nel quado sinistramente bucolico fotografato da Erik Molberg e scuotere il protagonista, dirgli di svegliarsi, girare i tacchi e fuggire il più velocemente possibile. È invece lo spettacolo ottuso del suo martirio che dobbiamo sostenere. Fissare lo sguardo attonito della vittima che, ancora, non domanda pietà ma spiegazioni, come se ci fosse ancora la possibilità di salvare un ordine razionale del mondo: “Perché ci fate questo?”.
La replica, laconica, è irrefutabile: “Perché ce lo avete permesso”.