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Robert De Niro in Il cacciatore (Lucky Red)
È la notte del 9 aprile 1979 e Il cacciatore vince cinque Oscar. I pronostici puntavano su Il paradiso può attendere, la commedia metafisica del golden boy liberal Warren Beatty (nove nomination, una statuetta per la scenografia), e Tornando a casa, il dramma romantico sulle conseguenze del Vietnam trainato da Jane Fonda e Jon Voight (migliori protagonisti dell’annata). Anche Il cacciatore, seconda regia del trentanovenne Michael Cimino, si concentra sulla guerra che ha segnato una generazione, raccontando i destini di tre amici che partono per il fronte.
A consegnare l’Oscar più importante, quello per il miglior film, è John Wayne: il vecchio cowboy resta verticale ma è minato dalla malattia, un tumore allo stomaco che se lo porta via due mesi dopo la cerimonia. È un cortocircuito notevole: circa un decennio prima, al culmine dell’intervento americano nel Vietnam e con la collaborazione del governo statunitense, Wayne aveva diretto e interpretato il propagandistico e reazionario Berretti verdi, uno dei film più sbertucciati della storia.
Dieci anni separano Berretti verdi e Il cacciatore: nel mezzo, mentre dilaga la paranoia, il Vietnam si configura come un macigno quasi inaffrontabile – a meno che non si sfoci nell’allegoria, dalla satira (M*A*S*H che parla della Corea guardando al presente) al western revisionista (Piccolo Grande Uomo e Soldato Blu che trasfigurano i vietnamiti nei nativi americani) – e, non a caso, cominciano ad affiorare i traumi dei veterani (Taxi Driver, ovviamente, ma anche I visitatori o La morte dietro la porta).
Quando arriva nelle sale, Il cacciatore divide: c’è chi sottolinea il razzismo nella rappresentazione dei vietcong e c’è chi vede un approccio conservatore. Molti non vedono di buon occhio Cimino: è un personaggio sfuggente, inclassificabile, ha ottenuto un buon successo con l’esordio (lo splendido Una calibro 20 per lo specialista, solita malsana traduzione del più efficace Thunderbolt and Lightfoot) e conserva nel cassetto una sceneggiatura intitolata The Johnson County War (rimaneggiata, sarebbe diventata I cancelli del cielo). Nel frattempo lo chiamano per portare in scena uno script di Deric Washburn, a cui rimette in mano non senza problemi. Le riprese in Thailandia sono avventurose e Cimino si scontra continuamente con i produttori che vogliono un film più snello (loro tagliano e lui si impunta: alla fine vince). A un certo punto, forse per darsi un tono o forse per il gusto della provocazione, racconta al New York Times di aver prestato servizio in Vietnam, dopo l’Offensiva del Têt, ma si scopre che è una bugia e si aliena qualche simpatia.
Agli Oscar non lo vedono arrivare, la campagna diventa un caso di studio (prima programmato su Z Channel, un eccentrico canale via cavo di Los Angeles, visto da molti elettori dell’Academy, poi distribuito in un numero di sale limitato a ridosso delle votazioni) e, grazie al trionfo, la United Artists accetta di produrre I cancelli del cielo. Destinato, com’è noto, alla catastrofe: le riprese si dilungano, il budget lievita, gli scioperi degli attori rallentano la sincronizzazione dell’audio. Il flop al botteghino fa traboccare il vaso: Cimino diventa un maledetto, il megalomane che uccise la New Hollywood e per un pelo non affossò la gloriosa casa di produzione (detto questo, I cancelli del cielo è meraviglioso).
Di lì in poi conduce vita da reietto, Dino De Laurentiis lo recupera e lo stritola con L’anno del dragone, un noir stupendo che il tempo migliora, a cui seguono il kitsch Il siciliano su Salvatore Giuliano, il remake di Ore disperate e il crepuscolare e definitivo Verso il sole. Quella di Cimino è una delle parabole più emblematiche del cinema americano: dall’Oscar all’oblio, la radicale rimozione anziché l’epica del fallimento, il titanismo portato allo stremo di un visionario che aveva cittadinanza solo nel grande schermo.
Si dirà che Il cacciatore è un film sulla perdita dell’innocenza, con quei giovani che prima vanno a caccia di cervi, danzano balli tradizionali, cantano a squarciagola Can’t Take My Eyes Off You, si abbracciano, si dichiarano amore e poi si ritrovano all’inferno delle gabbie acquatiche, della fanghiglia, delle roulette russe. È vero: Il cacciatore è un canto di morte, anzi un ballo di morte, un movimento coreografico in cui i colpi di fucile disegnano traiettorie funebri. Una delle grandi trenodie del cinema americano, che gira il coltello in una ferita ancora viva, mette le mani nella carne maciullata di una generazione, squarcia il velo con un colpo di fucile così come si vedrà plasticamente nei Cancelli del cielo in cui il volto di Christopher Walken spunta in un telo strappato.
Parte dove si ferma American Graffiti e racconta ciò che Un mercoledì da leoni – uscito qualche mese prima – teneva fuori dal quadro, tutto quello che John Milius lascia nascoste in piena vista tra le onde e le maree. E, alla resa dei conti tra la storia e il destino, ripensa a Orfeo e Euridice e ad Achille e Patroclo, con l’amore riconfigurato nell’amicizia (che poi non è la stessa cosa?), sentimento che è vero protagonista del film. Anche occulto: John Cazale, ovvero Stanley, uno degli amici che forma il gruppo di protagonisti, il cui volto segnato dalla malattia oltrepassa il presagio, si fa simbolo struggente di un cinema che sfida la morte, con Meryl Streep che mentre in scena è contesa da Mike e Nick, nella vita cerca di tenerlo a sé il più possibile.
Mike, cioè De Niro, il vinto che ha vinto, la medaglia sul petto e il cuore lacerato, che torna negli inferi per salvare Nick, un indimenticabile Walken, la macelleria prodotta dalla guerra: Il cacciatore accoglie una delle sequenze più devastanti del cinema novecentesco, naturalmente la fatale roulette russa, talmente spudorata da mettere in crisi chi si interroga su una moralità estetica nella rappresentazione dell’atto stesso del morire, e comunque lancinante per come esaspera il realismo. “Io ti voglio bene, Nick. Andiamo, Nicky, andiamo a casa. Vieni a casa, a casa. Parlami, Nicky, parlami. Nicky. Aspetta un momento, Nicky... Ricordi gli alberi? Ti ricordi come son diversi gli alberi? Te lo ricordi? Te lo ricordi, eh? Le montagne... ti ricordi le montagne?”.
Un colpo solo, un colpo al cuore, che decreta la fine e annuncia un inizio, il melodramma e il romanzo d’appendice, la guerra e quel che resta: God Bless America, se possibile.