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The Dreamers in un'illustrazione di Marco Letizia
Nel 2003 sembrava già passata un’epoca intera dalla “battaglia di Seattle”, la grande manifestazione che solo poco tempo prima, nel 1999, poneva le basi per il Movimento No Global. Poi la repressione del G8 di Genova, due anni dopo, aveva sostanzialmente posto fine alle utopie messe in campo da un’intera generazione che era scesa in piazza in tutto il mondo per guadagnarsi la speranza di “un altro mondo possibile”. Dove eravamo finiti nel 2003 allora, battendo in ritirata dopo Carlo Giuliani, la Diaz, la caserma di Bolzaneto, e poi a settembre le Torri Gemelle?
Bernardo Bertolucci ci venne a stanare dal nostro esilio proprio mentre avevamo già aperto il gas dentro casa, con una pietra lanciata da un rivoluzionario che manda in frantumi una finestra, e ci intima di scendere per strada. Si tratta del finale (no spoiler!) di The Dreamers – I sognatori , il film con cui il regista di Ultimo tango a Parigi regalò anche agli spettatori di quella generazione, la nostra, un nuovo cult “maledetto”, volti, corpi, inquadrature e sequenze entrati da allora praticamente sin da subito nell’immaginario comune, dalla corsa per gli stanzoni del Louvre come in Bande à part al nudo di Eva Green “senza braccia” come la Venere di Milo: “di che opera si tratta?”, chiede la ragazza apparendo dal buio sulla soglia al protagonista Michael Pitt, come ha fatto sino ad allora tutte le altre volte in cui ha replicato fedelmente la scena di un film per la platea formata dal fratello gemello Louis Garrel e dal loro nuovo “amico americano”.
Qual è il film? è la domanda che anche Bertolucci pone al pubblico cinefilo, inanellando una galleria di citazioni e “reinterpretazioni” (come le chiama il personaggio di Garrel) che vanno da Hawks a von Sternberg, da Freaks a La regina Cristina , da Buster Keaton a Fred Astaire.
Ecco, si tratta sicuramente dell’aspetto di The Dreamers che gli spettatori che lo vedranno al cinema per la prima volta vent’anni dopo, ora che il film ritorna nelle sale, potranno cogliere in maniera più istintiva, oggi che “giocare” con le immagini della Storia del Cinema è qualcosa a cui ci siamo abituati, tra i rimontaggi e i videoessay (lo è forse in qualche modo anche l’opera di Bertolucci?) su YouTube, e i frammenti di sequenze provenienti da un secolo e passa di produzioni che ogni giorno ci scambiamo per comunicare tra di noi in forma di GIF e meme – forse anche il trio di The Dreamers oggi parlerebbe su WhatsApp con piccole animazioni di Charlie Chaplin e Mao Tse-tung.
Ma se queste particelle di cinema oggi circolano e si ammantano di nuovi significati in maniera del tutto anonima, ricontestualizzata e strappata ai propri autori, per Bertolucci ognuno (o quasi) dei riferimenti in The Dreamers va riconosciuto, nominato, svelato. No, non è il nozionismo numismatico della cinefilia all’epoca di Letterboxd il luogo dove il film del 2003 può rivivere in tutta la sua passione ribollente: è vero che si tratta di sfide, di prove, ma, come dice Eva Green citando Perfidia di Bresson, “non esiste l’amore ma esistono solo prove d’amore”.
Senza l’amore non serve a nulla starsene a casa a citarsi addosso passi di libri e titoli di film. Ecco, è questo quello che può continuare a dirci Bertolucci, ed è ciò che ci ha ripetuto ancora e ancora per tutta la sua filmografia, anche nei film successivi a questo, fino allo straordinario e di nuovo vitalissimo Io e te: se nel 2003 non sapevamo già più dove aggrapparci per ritrovare un sentimento politico comune, figuriamoci nel 2024, in cui qualunque tipo di ideologia o appartenenza (e di petizione, dato che come dice il padre dei gemelli di The Dreamers, “ogni poesia è una petizione e ogni petizione è un poema”) passa praticamente solo attraverso le bacheche dei nostri profili social.
Mettere alla prova la tenitura del proprio amore – per il cinema, per la vita, per gli altri, per il mondo – è ancora un atto politico, è ancora un gesto rivoluzionario, è ancora l’unica sfida che tiene insieme le epoche e le lotte, la Hollywood classica con la Nouvelle Vague, il maggio francese del ‘68 con Black Lives Matter, il sesso di Ultimo tango a Parigi con quello di questo film. Quello stesso amore con cui possiamo impedire alla Mouchette di Bresson di rotolare sul prato fino a scomparire nelle acque, possiamo ripetere, rovesciare e interrompere la visione, possiamo ancora sederci in prima fila (ovunque essa sia) a “prenderci le immagini per primi”. Strappare queste immagini al flusso, donare loro una nuova paternità, come se non ne avessero mai avuta alcuna prima di noi.