PHOTO
James Gandolfini in I soprano (Webphoto)
Comincia tutto con il ricordo di un momento di grazia: le ‘anatre di Central Park’ si installano nella piscina di Tony Soprano, padre di famiglia e boss della Mafia in accappatoio e ciabatte. Holden maturo, le guarda sguazzare nell’acqua e le accudisce con slancio. Ma le anatre finiscono per volare via e lasciarlo inspiegabilmente triste. L’occhio rovescia all’indietro, il sigaro cade dalla bocca e l’uomo crolla, abbattuto da una crisi di angoscia.
L’attacco di panico di Tony Soprano inaugura I Soprano e le visite nello studio della dottoressa Melfi. Formidabile ingresso in materia, il pilota della serie impone un’immagine iconica (il mafioso dall’analista) e innesca con intelligenza gli intrighi che svolgerà in sei stagioni e 86 episodi: i mommy issues freudiani, la guerra latente con zio Junior, la paternità inconciliabile con l’attività malavitosa, la relazione tutelare con Chris, nipote e scagnozzo dalle tendenze autodistruttrici.
Capolavoro di concisione, il primo episodio dei Soprano polverizza nel 1999 tutte le convenzioni del racconto televisivo, adotta una qualità formale quasi cinematografica e si insedia in un décor disincantato, popolato da bad guy in sovrappeso dalla moralità vacillante e l’appetito permanente. Come tutte le storie di mafia che si “rispettino” ci sono omicidi, ostilità, guerre di territorio, droga e prostitute ma la serie monumentale di David Chase rivolta come una frittata la tematica mafiosa per farne lo strumento di uno studio psicologico approfondito sulla famiglia americana, sulla nevrosi del maschio americano, sulla nozione di bene e male, sull’eredità italoamericana, sul crepuscolo degli idoli (“Dov’è finito Gary Cooper?”).
Raccordo con la corrente postmoderna del cinema americano degli anni Novanta (Tarantino e i fratelli Coen su tutti) e specchio dei primi anni del XXI secolo, quelli di George W. Bush e dell’11 settembre, I Soprano è (anche) la risposta folgorante al genere criminale e ai suoi capolavori (Il Padrino, Quei bravi ragazzi). È il New Jersey contro New York, la banalità del quotidiano contro la dismisura dell’affresco, l’azione contro l’introspezione, lo schermo televisivo contro quello grande del cinema.
Tutta la serie si appoggia su un antieroe problematicamente seducente che nel quinto episodio della prima stagione (Un conto da saldare) uccide a mani nude un vecchio associato spione e sposta la serie in un’altra dimensione. Fino a quel momento Tony aveva incarnato un boss irascibile certo ma la cui bonomia sembrava negare una tale mostruosità. L’episodio otterrà l’Emmy Award e farà giurisprudenza nel paesaggio della televisione americana, spianando la via agli antieroi che da Walter White a Don Draper caratterizzeranno la nuova età dell’oro delle serie.
Everyman estremo, che vorrebbe fare la cosa giusta ma sempre nella maniera sbagliata, Tony Soprano passa per il corpo colossale di James Gandolfini e un ultimo sguardo prima che tutto si spenga, l’immagine, la serie, la musica, lasciando un eco permanente negli spettatori. Il finale aperto dei Soprano (Made in America) è un’allusione al potere infinito della fiction. Il punto di sospensione che eleva definitivamente la serie verso un altrove al confine col metafisico. Don’t Stop Believin’.