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Wim Wenders (foto di Karen Di Paola)
"Hirayama vive come una scimmia zen, applica una filosofia del vivere qui e ora che ha una lunga tradizione in Giappone. Non gli piace pensare al futuro e fare dei piani. Non vuole insegnare a nessuno come vivere: è contento di quello che fa, anche se svolge un mestiere molto umile".
Wim Wenders presenta Perfect Days che, dopo la Palma d’Oro per il miglior attore protagonista al Festival di Cannes a Kōji Yakusho, arriverà nei cinema italiani dal 4 gennaio distribuito da Lucky Red. Un’altra storia ambientata a Tokio, città che “dopo aver vissuto il più lungo lockdown della storia, – spiega il regista – ha maturato un rispetto profondo per il bene comune, per i parchi, per le strade. I giapponesi hanno sviluppato una cura per la bellezza, per tutto ciò che c’era fuori. A Berlino, invece, un piccolo giardino vicino casa mia in due settimane è stato devastato con spazzatura e sporcizia. In Giappone ho visto l'opposto, ho visto molto più senso di comunità”.
Protagonista del film è l’addetto alle pulizie Hirayama, un solitario che ama ascoltare la musica anni Settanta dentro il suo van con le audiocassette: “all’inizio pensavo di non poter imporre i miei gusti musicali a un giapponese, – dice Wenders - poi ho scoperto che all’epoca anche lì ascoltavano i Velvet Underground, gli Stones, la mia stessa musica”.
A incarnarlo è, come anticipato Kōji Yakusho, volto del cinema giapponese: “Ho visto e amato tutti i suoi film, e penso sia uno dei più grandi attori viventi. Quando mi ha detto che avrebbe fatto il film, ho scritto la sceneggiatura avendo sempre in mente lui”.
Una collaborazione, però, non semplice. Soprattutto all’inizio: “I primi giorni di set non riuscivamo a parlare senza traduttore, dialogavamo con i gesti, gli occhi, il corpo”. Scene che ricordano il rapporto tra Leone e Eastwood. Come avvenne in quel caso, però, dopo le difficoltà iniziali, “abbiamo iniziato a capirci così bene, che i gesti erano immediati, parlavamo senza parole. Io ho capito che non dovevo correggerlo perché Yakusho era perfetto nella parte: sul set lo chiamavo Hirayama, non con il suo vero nome”. Più che un film, dunque, quasi “un documentario su un personaggio di finzione: abbiamo girato senza provare prima le scene perché l’attore era sempre perfetto, era il nostro Hirayama”.
Un protagonista iconico di cui, però, Wenders insieme al suo co-sceneggiatore e co-produttore il giapponese Takuma Takasaki si è premurato di adombrare il passato: “Volevamo che il pubblico lo riempisse da sé, – spiega il regista Palma d’Oro – vedendo la sorella che arriva a casa sua in limousine, si può intuire che probabilmente ha vissuto da privilegiato, ma anche che poi è successo qualcosa. Ha fatto una scelta di vita più semplice, di cui magari è anche abbastanza felice. Ho voluto seminare indizi, ma è necessario che il pubblico interpreti a modo suo”.
Soprattutto perché Hyrayama anche se vive "una vita modesta, - ha cura per ogni persona, per ognuno che entra in bagno. È un mister Nobody certo, ma capisce e rispetta tutte le persone che sembrano non vederlo”.
Per cui Perfect Days si può interpretare anche come un “film su un personaggio con una routine molto rigida, ma che non lo annoia. Perché ha la capacità di stare nel presente, nel qui e ora. La routine non è necessariamente negativa, può dare ordine alla vita. Io la applico solo quando faccio un film, fuori dal set no. Invece può dare libertà".
Routine sul set che, per il regista teutonico, ha significato soprattutto aver lavorato con una troupe ristretta: "Se faccio un film su qualcuno che ha semplificato la sua vita, l’ha ridotta solo a quello che gli piace, devo fare lo stesso anche io. Abbiamo girato tutto il film sulle spalle del direttore della fotografia Franz Lustig, usando sempre la camera a mano, con poca luce, in pochissimi giorni, con inquadrature che rimandano a vecchi film come quelli di Don Camillo e Peppone, o all’epoca del muto. Certo, questa scelta ha ridotto le nostre possibilità, ma il personaggio e il suo appartamento erano perfetti per questo modo di girare".
Troupe ridotta che non ha impedito al regista di ricorrere, come di consueto, ad una collaboratrice speciale: “scrivendo la sceneggiatura, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante entrare nei sogni del protagonista, come fossero un riflesso del giorno, filmando cose minime, gesti di altre persone, la luce del sole o del fiume a cui lui è sempre molto attento. Avevamo, però, un tempo limitato. Così mi sono rivolto a Donata, mia moglie. Avevo già dentro la troupe la persona perfetta per girare questi sogni. Spesso lavorava sola, con solo la location manager giapponese. Io le parlavo di ciò che mi sarebbe piaciuto vedere e a fine giorno lei me lo portava".
Wenders, come detto, è tornato a lavorare in Giappone, nell’amata Tokio dopo decenni: “negli anni Settanta era un posto remoto, ma io mi ci sono sentito sempre a mio agio. A Tokyo c’è la modernità e la ruralità. Puoi essere in una zona moderna, ma se giri l'angolo magari ti ritrovi in un villaggio. Allora come ora, è una città molto vivibile, pulita, accogliente, disciplinata. Sai che non sarai mai derubato o molestato. Insomma non senti che la minaccia delle nostre città, soprattutto in America"
A proposito di America, a chi gli chiede della possibilità di concorrere all’Oscar con un Paese straniero, Wenders si dice “orgoglioso di rappresentare il Giappone, anche se è una sensazione strana. Quando mi hanno riferito che avevano scelto il mio film, sono rimasto meravigliato, ma poi ho capito il motivo: Kōji Yakusho è amatissimo in Giappone, è un vero eroe in patria”.