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I nostri ieri (Credits: Studio Morabito)
“Il cinema è un lavoro di occhi, quando c’è qualcosa da raccontare e si ha la fortuna di non doverla verbalizzare, l’unico strumento sono i propri occhi”. Peppino Mazzotta (A classic horror story, Il commissario Montalbano) è di nuovo protagonista -dopo La velocità della luce- del nuovo film di Andrea Papini I nostri ieri. Sarà al cinema dal 9 febbraio, distribuito Atomo Film, prodotto da Antonio Tazartes, Marita D’Elia e dallo stesso Papini col sostegno di MIC Direzione Generale Cinema, Emilia Romagna Film Commission e Ministero della Cultura.
L'attore incarna Luca, un padre documentarista che in carcere convince Beppe (Francesco Di Leva) a ripercorrere le tappe che lo hanno portato alla detezione in un film da realizzare con il sostegno degli altri detenuti. L’intero film è improntato a una recitazione essenziale, in levare che per l’attore calabrese è ideale per trasmettere “il pensiero, l’emozione. Si può fare quando la sceneggiatura lascia uno spazio a questa possibilità. Andrea (Papini ndr) ha un approccio scientifico alle cose, anche alla narrazione, ed è positivo perché fa sentire gli attori più sicuri, capisci che tecnicamente ha già vagliato tutte le possibilità, sai che sei ben “protetto”, e in questo spazio protetto puoi esprimerti liberamente".
“A volte il nostro lavoro consiste nel ‘togliersi’, invece di ‘mettersi’ a interpretare qualcun altro da sé”, gli fa eco Maria Roveran, collaboratrice alla sceneggiatura e co-protagonista del film (il cast femminile annovera anche Daphne Scoccia, Denise Tantucci e Teresa Saponangelo). “Ci sono delle storie, come questa, in cui ci viene chiesto di sottrarre e di sottrarci: non è facile, perché noi attori viviamo di ego, come tutti gli esseri umani”. E aggiunge anche un esempio significativo: “nella scena più importante del film mi è stato chiesto di non esagerare emotivamente le reazioni, per mettere quasi una sorta di straniamento”.
Anche il regista-ingegnere conferma la diversità stilistica e la precisa cifra recitativa del suo lavoro: agli attori ha chiesto di focalizzarsi “sul non detto” per “lavorare sottotono, sussurrando”. La necessità primaria, infatti, era “utilizzare il cinema come elemento di riflessione emotiva partendo dalla realtà” per allontanarsi dal rischio di “eccesso di verbosità” che caratterizza gran parte della fiction e della serialità dei nostri giorni.
Inoltre il cineasta ha ribadito come non sia “un film scientifico sulla struttura carceraria, non era questo lo scopo”, ma il carcere, come suggerisce anche il titolo, si presenta come “un pretesto per parlare del rapporto con la nostra memoria»; il protagonista, perciò, non è né Luca, né tantomeno Bruno, ma «forse, il tempo”.
È sulla stessa lunghezza d’onda Lucia Castellano che ha partecipato al dibattito dopo la proiezione tenutosi al Cinema Troisi di Roma. Per la Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria, il lungometraggio “utilizza il carcere per lavorare sul percorso di consapevolezza di sé stessi” attraverso cui i personaggi possono arrivare a conoscersi e a perdonarsi. La speranza è che “questa consapevolezza si trasmetta a tutti gli spettatori: il carcere non può bastare a sé stesso, perché la vita delle persone che stanno dentro non è una vita cancellata o sospesa”. Per la dirigente è fondamentale “aprire le porte del carcere all’esterno e attivare con il cinema o con il teatro, questi percorsi di consapevolezza. Mi piacerebbe che questo film fosse proiettato nelle scuole e, perché no, anche negli istituti penitenziari”.
Anche Franco Corleone, ex sottosegretario al Ministero della Giustizia nel primo governo Prodi è intervenuto nella chiacchierata, sottolineando come il carcere sia “un mondo complesso, purtroppo diventato negli anni una discarica sociale, su cui si fa molta retorica”, che, invece, andrebbe rimossa, riservando la detenzione solo “a chi compie gravi delitti”. La strada maestra per Corleone deve essere, allora, la piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione italiana, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono piuttosto tendere alla riabilitazione del condannato”. Fondamentale in questo ambito per Corleone il compito del cinema che “produce libertà e responsabilità. Credo che con l’arte si possa far discutere, far emergere un’umanità diversa”.