PHOTO
Nanni Moretti e Margherita Buy in Il sol dell'avvenire
L’avversione per i sabot (con successiva spiegazione e analogia con le pantofole: ricordate l’incubo dell’Apicella bambino in Palombella rossa, “Nooo, in strada con le pantofole nooo!”?), la coperta in cui avvolgersi sul divano (la stessa di Sogni d’oro), il gelato, il rito di vedersi Lola di Jacques Demy ogni volta che inizia a girare un nuovo film (chissà se è così anche nella vita reale, ma non vediamo perché non dovrebbe esserlo), le canzoni cantate in auto (stavolta tocca a Sono solo parole di Noemi), l’avversione per le scene di violenza gratuita nei film (allora era Henry, pioggia di sangue, in Caro diario, stavolta un regista italiano lanciatissimo che finisce per bloccare durante la lavorazione, in una delle scene forse più divertenti dell’intero film), i palleggi con il Tango con Et si tu n'existais pas in sottofondo (stavolta non per fuggire da uno scocciatore come in La messa è finita, ma sul set a fine giornata) e altri molteplici appigli al Nanni che fu, che è e con buona probabilità sarà: Il sol dell’avvenire è il nuovo film di Moretti – dal 20 aprile in 500 sale con 01 distribution, poi in concorso al prossimo festival di Cannes (16-27 maggio), ottava volta consecutiva che gareggia per la Palma d’Oro, vinta nel 2001 con La stanza del figlio.
Nuovo film che dichiaratamente parla al suo pubblico più affezionato (come avevamo facilmente intuito dal trailer rilasciato qualche giorno fa), certo, e che riporta Moretti in un territorio più “familiare” rispetto al precedente Tre piani (unico suo film realizzato da un soggetto non originale): “Ma i miei film sono tutti personali. Più personali”, ribadisce il regista, che ha scritto Il sol dell’avvenire insieme alle ormai abituali Federica Pontremoli e Valia Santella, con Francesca Marciano new entry, e la prima stesura della sceneggiatura è datata giugno 2021: “Prima ancora che la Russia invadesse l’Ucraina, poi alcune cose sono cambiate, alcune scene, alcuni caratteri di personaggi secondari”.
E la Russia – o meglio l’allora Unione Sovietica – viene rievocata nel “film nel film” che il protagonista sta realizzando: Nanni non è più Michele Apicella (non lo è più dal 1989 a dire il vero, da Palombella rossa appunto) ma è ancora una volta Giovanni (come in La stanza del figlio e Mia madre), regista al lavoro su un film ambientato nel 1956 al Quarticciolo, quartiere di Roma animato da una sezione del PCI intitolata a Gramsci e dove arriva una compagnia di circensi ungheresi (Budavari, come il campione pallanuotista da “marcare” in Palombella rossa…).
Poco dopo scoppia la rivoluzione in Ungheria e dalla direzione del Partito non arriva nessuna condanna relativamente all’invasione sovietica, cosa che finisce per creare un dissidio tra Ennio e Vera (Silvio Orlando – al quinto film con Moretti, l’ultimo fu Il caimano nel 2006: “Erano 17 anni che non lavoravo con Nanni, molto felice che mi abbia richiamato. Sono molto contento quando Nanni mi chiama, ma sono molto più sereno quando non mi chiama”, dice scherzando e Barbora Bobulova, alla prima prova “morettiana”, emozionatissima: “Sono entrata in questa famiglia di Nanni dall’esterno e mi sono sentita molto accolta: ogni giorno sul set è stato veramente un dono”).
Nella vita “reale”, intanto, Paola la moglie di Nanni, produttrice del suo film come dei precedenti (interpretata da Margherita Buy, che ha appena terminato le riprese della sua opera prima, qui al quinto film consecutivo con Moretti: “Un film complesso, sono molto curiosa di vedere come dialogano le varie storie tra loro”), 40 anni insieme, vorrebbe lasciarlo ma non sa né quando né come dirglielo. E il coproduttore francese (Mathieu Amalric) potrebbe non essere così affidabile come sembra…
Giovanni tra una ripresa e l’altra è già al lavoro su una nuova stesura da Il nuotatore di Cheever e immagina un altro film – “Una storia d’amore lunga 50 anni” – con tante canzoni italiane (e torna Battiato, Voglio vederti danzare, più le new entry Tenco e De André con Lontano lontano e La canzone dell’amore perduto)…
Ci sono temi e personaggi che ho affrontato nei miei film precedenti, poi certo la recitazione, la regia, la scrittura sono un po’ diverse perché si cambia come persone. Nei decenni si può cambiare, poco, e forse quel poco si riflette nella recitazione, nella scrittura e nella regia”, dice Moretti a chi gli chiede se in questo film ci sia una sorta di “riappacificazione con il disagio”, ma non cambia idea per quello che riguarda le piattaforme, bersaglio in un’altra scena molto divertente in cui si parla dei famigerati “190 paesi”, di slow-burning, turning point e di mancanza di situazioni da what the fuck!: “Le piattaforme vanno bene per le serie, i film si devono fare per il cinema. Personalmente ho sempre reagito andando contro quella che era l’onda: a metà anni ‘80 c’erano pochi film italiani radicati nel territorio, c’era la tendenza a fare film fintamente internazionali, che per piacere a tutti poi non piacevano a nessuno, allora ho reagito creando la mia casa di produzione. Qualche anno dopo i cinema chiudevano, c’era il trionfo delle VHS, io ho aperto il Nuovo Sacher nel novembre del ‘91. Poi quando gli esordienti non se li filava nessuno ho iniziato a fare “Bimbi belli”, la rassegna sulle opere prime all’arena qui accanto. Anche questa volta ho fatto finta di niente, e ho scritto, girato, montato il mio film per gli spettatori di un cinema. Cerco di non preoccuparmi troppo di quello che sta succedendo intorno”.
Intorno però sta anche succedendo che il cinema italiano ritorna – dopo 8 anni – con tre film in concorso a Cannes, con La chimera di Alice Rohrwacher e Rapito di Marco Bellocchio: “Andrò sulla Croisette con il solito spirito. È bello quando c’è una platea che ride e si commuove, ed è ancora più bello quando la sala è enorme come quella del Palais di Cannes. Il film è molto atteso anche in Francia – anche lì uscirà, a fine giugno, con un titolo abbastanza sarcastico, Vers un avenir radieux, che era uno slogan del comunismo francese. Gli altri due film italiani in gara? Alice Rohrwacher è una regista molto interessante, ho sempre ospitato qui al Sacher i suoi film, di Bellocchio non c’è bisogno che vi parli io. Mi dispiace che non ci sarà Matteo Garrone, ma non so nulla del suo film. Il cinema italiano è vivo, come sempre, vivo di registi e film però privo di una cura, di un’attenzione intorno. Ci sono tante belle trasmissioni in tv sui libri, perché non ce ne sono altrettante sul cinema? A volte poi il pubblico regala delle sorprese, penso a Le otto montagne, al successo che ha avuto. Non c’è un’attenzione, un ambiente, una cura che questi registi e questi film meriterebbero. E poi bisognerebbe riflettere su un altro aspetto, sui tanti film d’autore, d’essai, che un tempo venivano preparati bene, coccolati, uscivano al momento giusto, con l’attenzione dovuta, ormai vengono gettati allo sbaraglio, il pubblico non capisce cosa sta uscendo, non capisce che tipo di film siano, tanti film buttati a casaccio. Come esercente oltre a programmare buoni film – penso a The Quiet Girl ad esempio, che non ha avuto il successo che avrebbe meritato – che altro dovrei fare? So che dovrei dire ‘bisogna dare al pubblico un’esperienza…’, forse sono un po’ vecchio ma credo che programmare buoni film sia la cosa principale”.
Poi torna su sé stesso: “Per capire come sta Nanni bisogna vedere i suoi film, dice spesso Silvio Orlando, ed è una cosa molto bella secondo me”. E si sofferma sul finale del Sol dell’avvenire: “L’ultima ventina di inquadrature non era prevista nella sceneggiatura. Doveva finire con la parata a via dei Fori Imperiali, con i personaggi di Silvio e Barbora sull’elefante, il personaggio di mia figlia (Valentina Romani, ndr) e pochi altri vestiti anni ’50. Poi mi è venuto in mente di far tornare tutti gli altri personaggi del film. Poi ho iniziato a montare e mi sono detto ‘ma perché limitarsi a richiamare solo i personaggi del mio ultimo film?’. E allora ho richiamato tutti i personaggi dei film fatti fino ad oggi (manca Laura Morante, ndr…). E il mio saluto verso la macchina da presa è stato spontaneo, magari chiudo questa primissima fase della mia carriera, alla quale poi seguirà una seconda fase che durerà un’altra cinquantina d’anni”…