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Ennio
Bones and All di Luca Guadagnino
La storia del primo amore tra una giovane donna che impara a sopravvivere ai margini e un reietto dall'animo combattivo, insieme in un'odissea nell'America di Reagan. Due adolescenti in fuga da una società ostile, diseredati che si riconoscono all’istante, cannibali che hanno fame d’amore. Potrebbe essere il Twilight del cinema d’autore: sembra diretto un giovane europeo della Nouvelle Vague, nel momento di massima libertà della New Hollywood, dentro un cinema post-tutto che rinnova la tradizione delle coppie vagabonde e maledette. Uno struggente mélo sociale su quanto possa essere totalizzante l’amore in una nazione priva di empatia verso umiliati e offesi.
Ennio di Giuseppe Tornatore
L’uomo dietro l’artista. Un documentario che è una partitura musicale: si vede il musicista e, soprattutto, si vede la musica, una sinestesia cercata, alimentata e sublimata da Tornatore. La confidenza tra regista e compositore non è esclusiva, ma inclusiva: la sperimentazione, la moglie Maria, la commozione, il padre trombista, tutto si scoglie in un lessico familiare, il maestro e le sue note, le sue composizioni, le sue e nostre emozioni. Tornatore ha voluto il mondo (incredibile il parterre di intervistati) per dire di un uomo. Enciclopedico, universale, intimo.
Esterno notte di Marco Bellocchio
In sei episodi una polifonia di punti di vista, mutando la cronologia degli eventi attraverso lo sguardo dei vari protagonisti. È un’opera che sfiora il monumentale perché mescola appunto l’esterno, il risaputo, l’ufficiale, con l’interno che non è più solo quello della prigionia Moro, ma l’intimo di rapporti affettivi tra posizioni di facciata e situazioni di un’ambiguità irrisolta. Costruito con una meticolosità che illumina gli anfratti bui di una vicenda angosciosa, non ha bisogno di alcuna furbizia per alimentare un interesse, negli occhi di chi guarda e nel cuore di chi assimila. Soprattutto grazie a suggestioni, analogie, alternanza di immaginario e reale.
The Innocents di Eskil Vogt
Dove alligna il Male? C’è una educazione, anche sentimentale, al Male? E a che età? Se il coming of age è traiettoria sempre più praticata con esiti poco esaltanti, non tutto è perduto per l’originalità, l’estro, la presa sul reale, sebbene il reale stesso sia trasceso e pervertito. Opera seconda del regista norvegese, interpretata da attori superbi che recitano con una naturalezza invidiabile e una ricchezza di sfumature encomiabile, ci porta senza colpo ferire in un territorio esistenzialmente infido, moralmente ambiguo, cinematograficamente prezioso.
Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson
Anderson realizza il suo lavoro più accorato, ottimista, sentimentale. Non serve una pioggia di rane per ripulire la società dai propri errori (Magnolia), qui bisogna guardarsi negli occhi. È quello che fanno Gary Valentine e Alane Kane al liceo. Lui quindicenne, lei che ne ha venticinque. Lui ancora a scuola, lei che fa l’assistente del fotografo. Qual è la realtà? Qual è la finzione? Anderson si mantiene sul confine. Ambienta il suo film in una dimensione parallela, dove il cinema è qualcosa che si può sfiorare, ma mai davvero tenere per sé. L’emozione si trasforma in un abbraccio caldo, una necessità che si insegue nel corso degli anni.
Gli orsi non esistono di Jafar Panahi
Da un villaggio nei pressi della Turchia, Panahi (arrestato a luglio dal governo iraniano e condannato a sei anni di detenzione) dirige un film oltre confine: la regia è da remoto, non gli accadimenti, non le storie d’amore, due e parallele. Il potere morde, le tradizioni pure, le coppie collidono con la società: quella finzionale, non fittizia (come può la prosa non farsi compromettere dalla vita?), che tenta di ottenere passaporti falsi per fuggire in Francia; quella locale e proibita, di cui Panahi avrebbe scattato una foto che gli anziani del villaggio gli richiedono. Contro l'autorità, con autorevolezza.
Saint Omer di Alice Diop
Da un efferato fatto di cronaca, l’infanticidio, un dramma processuale con una giovane scrittrice incinta che segue il dibattimento perché a lavoro sulla rivisitazione del mito di Medea. Il comportamento dell’accusata rea confessa finirà per sindacare la sua stessa maternità. Davanti a un tema così dolorosamente sensibile il rischio di fare la morale è ancor più sensibile: il predominio dell’istanza etica sul racconto è la forma cui la regista non si sottrae. L’espediente stilistico è la divaricazione tra immagine e suono: l’inquadratura di un soggetto che ascolta le parole di un altro in fuoricampo.
Una storia d’amore e di desiderio di Leyla Bouzid
C’è la consapevolezza del lessico amoroso di Èric Rohmer, nel folgorante mélo della regista tunisina. Che scandaglia l’intimità misteriosa e impenetrabile di un diciottenne francese di origine algerina, cresciuto in una banlieue e sconvolto dall’incontro con una tunisina conosciuta all’università. La scoperta dell’amore si configura nei termini di uno shock che coinvolge il corpo, l’anima, il cuore: si può resistere a questo assedio? Riflessione sul tradurre come tradire e tramandare, un film colto e sensuale che cammina accanto ai suoi eroi e si fa fisico, tangibile, tattile.
La stranezza di Roberto Andò
Andò non è, e non ha mai voluto essere, autore alla moda: fa un cinema colto, anche dotto, di buona e perfino squisita fattura, lento all’ira e ricco di grazia. E metariflessivo, sempre letterato, spesso letterario: qui Pirandello (Toni Servillo, assai somigliante) e la filodrammatica, l’autore e gli amatori, convergenze parallele della stessa arte, con beneficio d’invenzione più che d’inventario. Non è pop, Andò, ma il suo cinema è popolare per intenzione e definizione, e nella sua misura più alta, giacché eleva anziché abbassarsi. Si veda l’impiego di Ficarra e Picone, davvero bravi.
Top Gun: Maverick di Joseph Kosinski
È un film che vive dell’originale del 1986, ne omaggia la struttura, lo spirito. Ma non siamo più negli anni Ottanta. Nella prima parte si respira un’atmosfera crepuscolare: Maverick è l’ultima bandiera di un decennio che non c’è più, un cowboy solitario errante che insegue il mito della frontiera quando ormai è diventato storia. La cifra stilistica è ben riconoscibile, ma Kosinski non vuole essere Scott. Ne riprende alcune sequenze, strizza l’occhio ai fan, poi decide di andare oltre. Vola sul fascino dell’incredibile, sceglie di sfrecciare sempre più in alto.