PHOTO
Nanni Moretti in Caro diario © LUCKY RED
Nell’estate immobile un uomo gira in vespa, zigzagando tra un mélange di inizi possibili. La destinazione non importa, importa innescare il movimento, essere mobili, lasciarsi portare dalla strada, dalla musica. Silhouette di spalle, Nanni Moretti semina al vento pensieri e si concede digressioni a forma di interludi musicali.
Caro diario è un film in prima persona. Nanni Moretti pronuncia aforismi sentenziosi in voce off ma è soltanto una delle voci dell’autore. L’altra è quella che ‘canta,’ offrendo a chi lo ascolta la glossa gioiosa della sua inadeguatezza al mondo e della sua volontà di ‘fare corpo’ con “una minoranza di persone”. Moretti misura la sua voce con quella universale della canzone, abbracciando l’arte popolare coi miti e i ritornelli che conosciamo a memoria.
Fissato con le scarpe, la Sacher e la Nutella, nutre una magnifica ossessione per la canzone. Qualche volte si accontenta di danzare (il merengue) su una canzone, qualche altra di cantare e danzare. Perché malgrado Michele Apicella (Bianca), alter ego nevrotico che preferisce rinunciare prima invece di soffrire dopo, Nanni Moretti sa bene che non può farcela da solo. Alla musica (Insieme a te non ci sto più) affida il compito di realizzare la comunione e “rimettere al mondo” una famiglia traumatizzata da un lutto (La stanza del figlio).
La canzone nel cinema di Moretti è un motivo ricorrente, lo specchio dei suoi film e insieme il rilevatore dello stato dei (suoi) personaggi, ciarlieri col mondo ma muti su se stessi. Il suo effetto speculare è sovente quello di una “resurrezione” (I treni di Tozeur in La messa è finita), di un’armonia ritrovata attraverso il canto, di una volontà di tornare a battersi (E ti vengo a cercare in Palombella rossa). Ben prima di “improvvisare” (Caro diario) e poi “realizzare” (Aprile) “la storia di un pasticcere trotzkista nell’Italia conformista degli anni Cinquanta”, Moretti “accordava” immagini.
Da sempre i suoi protagonisti riprendono le parole dei brani che passano alla radio o al jukebox in una sorta di controcanto, che diventa cifra del suo lavoro come la grana della sua voce. Il sogno mai realizzato del musical, sintomo di una frustrazione (ha sempre sognato di “saper ballare bene”), lo spinge più lontano. Moretti trova nella canzone un ponte tra un cinema “autarchico” e un cinema di “genere”, che invidia come il musical del suo rivale (Sogni d’oro) o riprende rimandando il film su “questa Italia” (Aprile).
“Costretto” a girare “film difficili”, applica al suo cinema il principio di sovrapposizione. Si sovrappone alla voce del cantante o addirittura lo rimpiazza. Moretti canta “sopra” e risolve la tensione tra popolare ed elitario. I’m On Fire di Bruce Springsteen produce addirittura un time out in Palombella rossa, deponendo una forma di eternità sulle nostre labbra e nei nostri occhi mentre la cantiamo con Silvio Orlando in un clima di scambio sensoriale. Ripetendo le parole di una canzone finiamo per masticarle come il tabacco, fino a saziarci, a consolarci.
Ma il bisogno di consolazione per Moretti è impossibile da colmare e allora serve subito un’altra canzone. Il refrain mugolato di El Negro Zumbon (Caro diario), la strofa straziata di E ti vengo a cercare (Palombella rossa) o il Concerto a Colonia di Keith Jarrett (Caro diario) diventano riparo dal mondo che ha assassinato Pasolini e si è ritirato in pantofole a Casal Palocco. Vero e proprio processo narrativo, la musica per Moretti non è più appendice dell’immagine ma filo (rosso) della trama, voce di un personaggio che vuole ballare. “Perché saper ballare è tutta un’altra cosa”.