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In viaggio
Il pontificato di Papa Francesco ha inaugurato un cambio di passo radicale nell’immaginario simbolico associato al papato, con riflessi evidenti nel modo in cui il cinema e la televisione lo hanno rappresentato. A differenza dei suoi predecessori (con la sola differenza forse di Papa Giovanni Paolo II), che spesso incarnavano un’autorità ieratica, difficilmente traducibile in immagini "popolari", Jorge Mario Bergoglio ha fatto della vicinanza, della parola diretta, della gestualità quotidiana i cardini della sua comunicazione. Questo stile immediato – fatto di omelie brevi, parole semplici, gesti forti – ha avuto un impatto fortissimo sull’immaginario collettivo: Francesco è diventato il primo Papa dell’epoca “social” a essere percepito come “uno di noi”.
Questa rivoluzione simbolica ha inevitabilmente plasmato anche il modo in cui il cinema e la serialità lo hanno raccontato. Il Papa non è più un personaggio da osservare da lontano, ma un corpo narrabile, un volto filmabile, un protagonista da dramma umano. Il cinema, che ha bisogno di conflitto e riconoscibilità, ha trovato in Francesco una figura nuova: non il rappresentante del mistero inaccessibile, ma l’uomo fragile dentro il mistero.
In altri termini, è come se la comunicazione di Francesco avesse performato un’estetica, e questa estetica – fatta di semplicità, corporeità, concretezza – fosse stata recepita come linguaggio da registi e sceneggiatori.
Un Papa pop? Estetica della prossimità
Questa “estetica della prossimità” si declina in diversi elementi ricorrenti nelle rappresentazioni filmiche e seriali:
- Il corpo in cammino, anziché il trono: Francesco è mostrato sempre in movimento, tra la gente, a piedi, chino sui malati, in viaggio. Anche Chiamatemi Francesco (2015) insiste su questa dimensione, facendo del giovane Bergoglio un “prete di strada” già segnato dalla sofferenza e dalla lotta civile.
- La parola come gesto: le sue parole diventano già sceneggiatura. In Papa Francesco – Un uomo di parola (Wenders), i suoi discorsi diventano veri e propri monologhi teatrali, costruiti per lo schermo con ritmo, pausa, climax.
- La vulnerabilità come forza narrativa: Francesco di Afineevsky insiste sulla fatica del corpo, sull’età, sulla stanchezza. Ma è proprio questa umanità che rende il pontefice così cinematografico: non è l’eroe impeccabile, ma il protagonista di un’esistenza in tensione.
- L’assenza di mediazione ecclesiale: mentre in passato il Papa era mostrato filtrato dai palazzi o dalla liturgia, qui è “nudo” davanti alla camera. Un esempio fortissimo è proprio il 27 marzo 2020: il silenzio, la pioggia, la solitudine davanti al mondo intero. Un’immagine evangelica e insieme neorealista.
L’effetto Bergoglio sullo storytelling religioso
Questa nuova rappresentazione papale ha generato un effetto domino su una più ampia iconografia cinematografica del sacro e del religioso. In The Two Popes, il confronto tra Ratzinger e Bergoglio non è solo ideologico, ma visivo. Ratzinger è associato al silenzio, all’internità, agli spazi vuoti del Vaticano; Bergoglio alla parola, alla strada, alla musica, al calcio. Il Papa argentino diventa quindi “personaggio” prima ancora che figura storica, narrazione vivente.


Chiamatemi Francesco
La serialità ha reagito producendo un cortocircuito. Paolo Sorrentino con The Young Pope e The New Pope ha costruito una figura papale volutamente anti-Bergoglio, astratta, divina, irraggiungibile. Jude Law è la risposta simbolica alla popolarità di Francesco: un papa irreale, visionario, fatto per provocare. Ma è proprio l’irruzione di Francesco sulla scena reale a rendere possibile questa deriva immaginaria: una volta che il Papa ha smesso di essere icona fissa e granitica, è divenuto, anche per il cinema, un personaggio da interrogare. In fondo, la libertà espressiva di Sorrentino nasce da una realtà che si è già fatta più fluida, più pop, più esposta alla comunicazione.
Anche In viaggio (2022) di Gianfranco Rosi – autore acuto, documentarista radicale – ha costruito un film interamente fondato sull’archivio dei viaggi di Francesco. Ma non ne fa un racconto cronachistico: Rosi costruisce un mosaico emozionale, dove le immagini di Francesco si alternano a quelle dei luoghi visitati, cercando il cuore spirituale della geografia.
L’eco nella cultura popolare
Francesco è l’unico Papa – ad oggi – che sia entrato senza mediazioni ironiche o dissacranti nella cultura pop, anche cinematografica. Questo ha reso possibile realizzazioni di cartoni animati per bambini (come Francesco – il Papa dei bambini), l’adozione del suo volto in fumetti e graphic novel (basti pensare a Francis: The People’s Pope), l’utilizzo della sua immagine in videoclip e opere d’arte digitale. Lo stile comunicativo di Francesco ha insomma modificato anche le regole di accesso: non è il cinema che si sforza di “entrare in Vaticano”, ma è il Vaticano che esce, si apre, diventa racconto.
Il Papa cinematografico che emerge da questo nuovo ciclo è profondamente incarnato, prossimo, vulnerabile e – proprio per questo – potente. È un Papa che non teme di essere guardato, che sa di essere nell’immagine, ma che nell’immagine cerca ancora una verità da condividere, non un ruolo da interpretare. Per questo il cinema ha trovato in lui non solo un soggetto, ma un linguaggio. Il pontefice diventato personaggio ha smesso di essere simbolo remoto per diventare dramma umano condiviso, eco del nostro tempo, testimone di una speranza che “non si può addomesticare”.
Più ancora che per la sua biografia — la prima volta di un Papa gesuita, sudamericano, proveniente da un’esperienza pastorale ai margini dell’Europa — il cambiamento si è imposto come questione di stile, di immaginario, di comunicazione. E il cinema, come specchio del tempo, ha saputo rispondere. Non si tratta solo di raccontare un uomo, ma di rendere visibile un cambiamento d’epoca: da un’immagine del sacro chiusa nella maestà, a una che accoglie l’incompiutezza del reale.
In questo senso, la rappresentazione di Papa Francesco al cinema è anche una riflessione teologica sul visibile. Mostrare un Papa che ride, che si commuove, che ascolta, che sbaglia, è riconsegnare al pubblico un’immagine del divino che non esclude l’umano. Un’immagine che — come il cinema — non si impone, ma si offre. E che proprio per questo, continua a interrogare.