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H.R. Giger - Foto Mia Bonzanigo
Dietro a ogni incubo spesso si nasconde un genio. Il vero orrore di Alien era che il mostro nasceva da dentro di noi. Lo xenomorfo fecondava brutalmente le sue vittime, trasformandole in un’incubatrice senza speranza. Chi è la mente dietro la bestia? Ridley Scott, s’intende. Ma le forme, la linea sinuosa, il gotico che si mescola alla fantascienza sono di Hans Ruedi Giger.
La sua arte poliedrica riceve la giusta attenzione con la mostra Beyond Alien: H.R. Giger, aperta al pubblico dal 5 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025 presso il Mastio della Cittadella di Torino, in cui sono esposti oltre settanta pezzi originali tra dipinti, sculture, disegni, fotografie, oggetti e video provenienti dal Museo H.R. Giger. Quella che viene descritta è una fusione tra carne e metallo, tra umano e sintetico. Se Carlo Rambaldi è l’inventore di E.T., tra i pochi esempi di creature non identificate dall’animo gentile, Giger può essere considerato il padre dello xenomorfo che vive nello spazio.
Il suo estro trae ispirazione da “Necronom IV”, litografia di Giger del 1976, che indaga le origini più oscure del cosmo. Il rimando è anche a Lovecraft. Per girare Alien, Scott ha affidato a Giger non solo la progettazione della bestia, ma anche quella delle astronavi e dei personaggi del pianeta Acheron (LV-426). Tutto nasce dai precedenti studi di Giger, realizzati per l’adattamento di Dune di Alejandro Jodorowsky, che non ha mai visto la luce.
Un lavoro che però non è andato perduto, che al suo interno racchiude gli schizzi dei vermi giganti del pianeta Arrakis. Dan O’Bannon, sceneggiatore con Ronald Shusset del film di Ridley Scott, ne resta affascinato e in seguito coinvolge l’artista nel nuovo progetto. Il successo è coronato dall’Oscar per gli effetti speciali, condiviso proprio con Carlo Rambaldi, che ebbe il compito di dare vita all’alieno in costante equilibrio con Giger, costruendo e rendendo meccanicamente funzionante la sua testa oblunga. Così la paura si fa arte.
Giger ha studiato architettura e design industriale alla Scuola delle Arti Applicate di Zurigo e, sin dall’inizio della sua carriera, ha dimostrato interesse per le venature surreali, alimentando una cifra stilistica caratterizzata da paesaggi ed esseri viventi biomeccanici molto inquietanti. Ha sperimentato diverse tecniche, tra cui la pittura, la scultura, l’aerografo, la fotografia. Si è anche dedicato alle scenografie teatrali e alle copertine degli album musicali, da Debby Harry a Emerson – Lake & Palmer, da Magma a Dead Kennedys, e agli italiani Pankow.
Oltre alla collaborazione, non proprio fortunata, con Lynch, spesso ci si dimentica che ha incarnato il terrore anche in Specie mortale del 1995 di Roger Donaldson. Il film fu un flop, oggi è un piccolo cult. Raccontava di un esperimento: una bambina generata dalla combinazione con un DNA alieno. Il risultato non si fatica a immaginarlo, in una progressiva mutazione che non lasciava scampo. Anche qui si ritrovavano i richiami allo xenomorfo: tratti con evoluzioni sospese tra accenni dark e proiezioni verso un futuro dalle caratteristiche feroci.
Giger era un visionario, che si focalizzava anche molto sulla profondità di campo. Le sue linee si perdevano all’orizzonte, i corridoi delle sue stazioni spaziali sembravano non avere fine. A volte avevano suggestioni anche erotiche, come la bocca “scattante” dello xenomorfo.
Ma soffermiamoci sul suo tratto. Sempre preciso, chiaro, fluente. Era la personificazione del dolore, delle criticità del nostro universo che si specchiano in una dimensione in cui “nessuno potrà sentirti urlare”. Raramente le sue sfumature ammiccavano a una serenità, anche nel cambiamento. Ghigni malefici, sottomissione, presagio di violenza: è questo che tutt’ora trasmettono le sue opere. È stato tra i pochi a soffermarsi sulla natura del fascino del male. Nel brivido, si sente comunque una malsana evocazione, il desidero di non distogliere lo sguardo. Che trova la sua personificazione in una delle tavole più famose di Giger.
È come se fosse un ritratto. Una figura femminile ci osserva con gli occhi allungati. Potrebbe avere sembianze umane, ma poi il suo volto trova nuove emanazioni in lunghi tentacoli, che si fondono con la realtà dietro di lei. La sua espressione è quieta, quasi rassicurante. Ma è proprio qui l’inganno. Concentrandosi, si possono notare dei piccoli teschi sopra di lei, degli esseri bloccati tra le sue grinfie, con le emozioni ormai spente. Le basi, quasi sempre smussate, lasciano intendere un corpo robotico, sintetico, o comunque deforme. È qui la sintesi di Giger: un mondo avvolgente, indomito, dallo spirito selvaggio, in cui l’unico obiettivo è sopravvivere. Che a suo modo si rivela magnetico, a cui non possiamo sottrarci.
Molto probabilmente il successo planetario di Alien non sarebbe esistito senza Giger, nonostante Scott sia un maestro dietro la macchina da presa. Dal 1979 l’orrore continua a chiedere il suo tributo di sangue in sala e, nonostante alcune difficoltà, il pubblico non smette di essere presente. L’ultimo capitolo è Alien: Romulus, che ha dettato un ritorno all’originale, per poi proseguire nella modernità. Come proseguirà la storia? Sta per arrivare una serie, e poi chissà.
L’horror raccontato dal cinema, sia che popoli lo spazio, oppure che affondi nelle viscere della terra o dell’animo, si addentra nelle nostre paure più recondite e inconfessate, come la morte, la malattia, la solitudine, l’ignoto, il diverso che non si conosce e che non si sa come affrontare. Indaga tutto ciò che ci rende deboli e incapaci di difenderci, che ci trova impreparati e impotenti, davanti al quale non servono studi scientifici, menti eccellenti o armi sofisticate. Può esprimersi attraverso le sembianze di esseri differenti da noi, non sempre concreti ma astratti, o affondare le radici nella follia umana. Il nero è il colore che lo definisce meglio. E in questa oscurità si inserisce una certezza: che la creatività di Giger infesterà per sempre le nostre notti più buie.