Dopo più di sessant’anni il genere processuale sembra tornato a essere centrale nel linguaggio cinematografico. O meglio, sembra tornato a essere considerato uno strumento più funzionale alla comprensione del mondo che al mero intrattenimento, un dispositivo riflessivo piuttosto che spettacolare. Dalla ricerca linguistica tra finzione e documentario (Saint Omer), al mainstream superomistico (Joker: Folie à Deux), passando per il cinema d’autore europeo (Anatomia di una caduta), quello dei generi (come l’horror di Red Rooms e il biopic di Oppenheimer), e quello dei grandi maestri della morale (Giurato Numero 2), l’aula da tribunale e il linguaggio processuale, con tutto il loro compendio di prassi e convenzioni, abiti e comportamenti, maschere e dibattiti, appare oggi come il toponimo più riprodotto dal cinema interessato a mettere in scena sia le tendenze paradigmatiche della società, della politica, delle ideologie contemporanee, sia lo stesso funzionamento delle immagini rispetto a queste tendenze.

Non accadeva appunto da sessant’anni, più precisamente dagli ultimi anni del 1950, quando tra 1957 e 1959 un gruppo di autori di diversa estrazione, provenienza e intenzione, sceglieva di intercettare l’attenzione sociale che già verteva sulle aule di tribunale – al centro della strumentalizzazione politica del maccartismo – per monitorare attraverso l’occhio del cinema lo stato di salute del rapporto tra legge, giustizia e verità.

Saint Omer
Saint Omer

Saint Omer

Tre di loro in particolare – Sidney Lumet (La parola ai giurati), Billy Wilder (Testimone d’accusa) e Otto Preminger (Anatomia di un omicidio) – hanno fondato un modo di rappresentare il luogo giudiziario nei termini allegorici e simbolici che poi sarebbe diventato centrale nel linguaggio di analisi biopolitica vent’anni più tardi, quando le storture e le manipolazioni della verità sarebbero state esaminate attraverso l’uso euristico delle eterotopie.

Prima di Foucault, nei film di questi tre registi gli spazi pubblici dei tribunali, delle aule di giuria, dei luoghi del giudizio erano già raffigurati come spazi “altri” rispetto a quelli ordinari, paralleli alla società ma distinti da essa per le loro caratteristiche di rispecchiamento, sovversione, contestazione.

La parola ai giurati è oggi considerabile come una matrice dell’inflessione ottimista, se non utopista, che dagli anni Cinquanta in poi, fino ai decenni del nuovo millennio, ha contraddistinto la definizione cinematografica dei luoghi del giudizio. L’adattamento del soggetto televisivo di Reginald Rose ha ispirato il cinema americano a interpretare il genere come un modello a favore della rinegoziazione delle opacità della parola grazie ai nuovi paradigmi cognitivi offerti dall’immagine e dallo sguardo.

La parola ai giurati
La parola ai giurati

La parola ai giurati

(Annex)

Tutto il cinema processuale degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta (da Il buio oltre la siepe a Mio cugino Vincenzo e Codice d’onore) in qualche modo procede dalle linee di fuga che si aprono dagli occhi sani del saggio giurato anziano del film di Lumet, che, dichiarando con i suoi venti/ventesimi di vederci benissimo malgrado l’anzianità, allegorizza il potere demistificatorio del cinema, la sua lucidità di visione contro tutti i poteri. In 12 angry men la parola arrabbiata, pregiudizievole, manipolatoria, ideologica è non a caso risolta sempre dalla richiesta di vedere meglio, di riguardare ciò che si ha solo adocchiato, a ripensare attraverso la vista e così riconsiderare il proprio giudizio.

È con questa visione idealista dello sguardo come strumento utopico che il film di Eastwood si confronta per mostrare come questo stesso paradigma conoscitivo sia nel nuovo millennio tanto impotente quanto la parola: niente di più che un residuo, una vestigia, una rovina che si visita e si guarda dietro una teca. Eastwood mette in scena il gioco dei riflessi che i vecchi modelli della conoscenza ancora debolmente proiettano nel labirinto di ombre del nostro presente, e, come uno dei grandi maestri del sospetto, riconosce in questo fascio di tenebra il nuovo contemporaneo.

La sua storia non è che un pretesto, un innesco – il grave dilemma morale non è solo assolvere o condannare, ma farlo essendo colpevoli dell’accusa di un altro –, che attraverso mille esponenti – dal montaggio alternato alla temporalità antilineare - rende esponenziale l’indecidibilità già virtualmente inscritta nei due identici coltelli piantati sul tavolo del film di Lumet.

© Universal Pictures. All Rights Reserved.
© Universal Pictures. All Rights Reserved.
L to R: Emily Blunt is Kitty Oppenheimer and Cillian Murphy is J. Robert Oppenheimer in OPPENHEIMER, written, produced, and directed by Christopher Nolan. (Melinda Sue Gordon)

Ma il punto da integerrimo moralista neoclassico (ancora contrario alle derive amorali del postmoderno) non è mera provocazione, anzi, corrisponde a una presa di responsabilità, una scelta di fermezza etica che alla luce di quella indecidibilità ormai così irrisolvibile decide di guarda fisso nel vuoto che si è aperto oltre l’orizzonte delle parole e dello sguardo.

Altri cineasti, invece di guardare dentro questo vuoto al centro del rapporto tra verità, legge e giustizia hanno preferito mostrarne l’esistenza in via negativa, rappresentandone piuttosto i contorni, riproducendo i tentativi del linguaggio, sia esso quello della Legge o quello del Cinema, di rincorrerlo, manipolarlo, sopprimerlo.

La coscienza dialettica di vuoto e pieno, del movimento in cui il linguaggio cerca di risolvere la sua negazione, dell’impossibilità di dire e di rappresentare inscritta proprio nel dire e nel rappresentare, è in fondo il lascito dell’altro grande modello di rappresentazione giudiziaria, quello di Preminger. Non è un caso che oggi i testi che più lucidamente hanno ragionato sulle dinamiche di rappresentazione si siano confrontati con il suo Anatomia di un omicidio.

Anatomia di una caduta
Anatomia di una caduta

Anatomia di una caduta

(Les Films Pelleas/Les Films de Pierre)

Su tutti, Anatomia di una caduta di Justine Triet e Saint Omer di Alice Diop, hanno usato l’opacità del film di Preminger, e quindi la sua visione dell’aula di tribunale e del linguaggio legislativo come luogo dell’inquietudine per illuminare le retoriche della Legge, e cioè le sue forme di manipolazione della realtà, contigue con una certa ideologia del controllo, della sorveglianza, della soppressione della differenza. Nei film di queste due registe il vuoto non è colmato da un’istanza morale, ma è piuttosto associato a un contenuto irrappresentabile, sia esso la dimensione del privato, la dimensione di coppia, le trasformazioni della sessualità, il corpo femminile e le sue feticizzazioni.

È un vuoto, quello al centro del cinema di ricerca d’autore europeo, che nella propria inspiegabilità chiede di riconsiderare le forme della Legge, e cioè della razionalità occidentale, nel florilegio delle sue costrizioni – ora patriarcali, ora colonialiste. E che, proprio per la sua natura incomprensibile e irreggimentabile, genera orrore. Non sorprende da questi punto di vista che Pascal Plante in Red Rooms scelga un’aula di tribunale per rappresentare plasticamente una mente che si frantuma al centro della scena, mentre tutt’intorno circolano immagini digitali sempre più precise, sempre più nitide, sempre più ossessionate dal cogliere il mistero in alta definizione del mistero.

Joker: Folie À Deux
Joker: Folie À Deux

Joker: Folie À Deux

(Niko Tavernise/™ & © DC Comics)

Allo stesso modo, sempre più frequentemente le misure monumentali del blockbuster d’autore si ripiegano nei centimetri decisivi che separano lo scranno del giudice e il tavolo degli imputati. Se in Oppenheimer Christopher Nolan sceglie un’auletta inquisitoria per inscenare le scissioni della post verità contemporanea, il tribunale alle intenzioni autoriflessivo di Joker: Folie à Deux è l’ultimo segno di come il cinema mainstream abbia abbandonato la visione del tribunale come utopia sociale.

Proprio il film di Todd Philips, con il suo gioco di maschere, richiede di considerare una volta per tutte il lascito di quel terzo autore, Billy Wilder, che contestualmente a Lumet e Preminger considerò il valore euristico degli artifici del linguaggio processuale. E cioè il valore conoscitivo di una forma simbolica molto distante dalla presentazione della verità come “a priori”, e piuttosto molto vicina a uno spettacolo capace di auto sabotarsi e trasformarsi in una critica all’economia politica dei segni.