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Gina Lollobrigida in La legge (Webphoto)
Cosa vuol dire essere una diva?
Vuol dire essere un’icona, certo. Inaccessibile, idealizzata, mitizzata. Un volto da sparare in copertina, un corpo da desiderare, un talento da ammirare. Un’attrice che supera la stagione di massima gloria, una presenza che si incastona nell’immaginario.
E vuol dire anche una carriera racchiusa in due, magari tre decenni, in pochi film che valgono un posto nell’eternità. E diva, Gina Lollobrigida (morta oggi a 95 anni), lo è stata davvero. In termini che, oggi, ci sembrano impossibili.
Da Subiaco con furore, con un cognome ingombrante e simpatico, Gina Lollobrigida è stata forse la diva più consapevole ed attrezzata della sua stagione prima dell’avvento di Sophia Loren. Più di Silvana Pampanini, Yvonne Sanson, Silvana Mangano. Forse perché, da brava ragazza di provincia, seppe riconoscere e sfruttò al massimo la grande occasione americana.
Assieme a Sophia Loren, la Lollo – nomignolo affettuoso ma anche monumentale – è la sola ad aver gestito l’esperienza hollywoodiana capitalizzando l’esotica bellezza mediterranea con la coscienza della caducità di un momento glorioso e fugace. Ma più di ogni altra cosa, è stata una diva in absentia. Dal grande schermo, anzitutto, spazio d’elezione, che però ha disertato per mezzo secolo, a parte qualche fugace apparizione, magari per ricordare al mondo chi era e chi sarebbe potuta essere se solo avesse voluto.
Perché, al di là del cinema, Gina Lollobrigida è rimasta diva, talmente immersa nell’immaginario italiano da poter rinunciare alla recitazione. Mai ex, insomma; anzi, in divenire. Dopo il cinema c’è stata la scultura (certo, non era Michelangelo, ma quello stile tra il camp e il kitsch ha una sua curiosità), c’è stata la fotografia (dei divi, ovviamente, un gioco alla pari), c’è stata l’avventura (la mitologica intervista a Fidel Castro). E c’è stato il gossip più becero, che ha malinconicamente frequentato negli ultimi tempi, a causa di un matrimonio-truffa, litigi familiari, presunti raggiri.
Un po’ Norma Desmond chiusa nella sua villa da generone romano, un po’ signora Stone come nella primavera di Tennesse Williams, sempre fasciata nell’outfit barocco (si disegnava gli abiti, ovviamente) e con una capigliatura forse un po’ sospetta, Gina Lollobrigida avrebbe meritato un Ryan Murphy che ne celebrasse il genio industriale e la figura leggendaria svelandone fragilità e meschinità, non ultime la strepitosa tendenza al catfight. Non tanto con Francesca Dellera, star degli anni ottanta berlusconiani, che ebbe la sciagura di recitare l’eroina titolare nel remake televisivo de La romana, che la stessa Lollo aveva interpretato all’apice della sua carriera nel 1954.
Pensiamo, ça va sans dire, all’eterna rivalità con Sophia Loren, di qualche anno più giovane, consacratasi diva più o meno nello stesso ’54 grazie al pigmalione Vittorio De Sica, già partner della Lollo nell’immortale dittico Pane, amore e fantasia e Pane, amore e gelosia, il cui terzo capitolo, Pane, amore e…, vide proprio il passaggio del testimone, metafora di un’intera epoca divistica perché, nei fatti, primo atto finale della carriera della Lollo.
Se c’è stata una vera differenza tra le due è sulla concezione del lavoro. Procedono convergenti e parallele per molti anni, con un dualismo alimentato dalla stampa (ognuna sosteneva di aver avuto più copertine), poi l’Oscar per La ciociara rende Loren il simbolo universale dell’Italia, lasciando Lollobrigida indietro. E quando la prima cerca costantemente di riposizionarsi nel mondo del cinema, la seconda decide di lasciarlo, forse con più lungimiranza imprenditoriale.
Comunque, al di là dello scontro, Gina Lollobrigida, per quasi un decennio, è stata “la più”, “the most” come diceva di lei Frank Sinatra. Se la Bersagliera dei Pane e amore è un personaggio memorabile, emblema di un’epoca rurale, di un mondo postbellico, di una nazione periferica, di un’ambizione internazionale. Recitava, ballava, cantava. Divorava la cinepresa, inondava lo schermo.
Popolare (nell’antologico Altri tempi di Alessandro Blasetti, De Sica la celebra come “maggiorata fisica” nel meraviglioso episodio Il processo di Frine) e d’autore, come dimostrano alcune prove magistrali, su tutte La provinciale di Mario Soldati, capolavoro strutturato, pensato, girato all’americana in cui vola, e la citata Romana di Luigi Zampa, ma anche La città si difende di Pietro Germi e Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani.
Brilla in Trapezio di Carol Reed, mettendosi sullo stesso livello acrobatico di Burt Lancaster, e indovina successi estemporanei ma sintomatici dell’epoca (i dimenticati La donna più bella del mondo e Venere imperiale, lo stucchevole Anna di Brooklyn da esportazione, l’americano Torna a settembre, Buonasera, signora Campbell cioè fonte non dichiarata di Mamma mia!), ma dà il meglio quando pensa di non darlo, cioè quando la sua recitazione retoricamente naturalistica sfida il realismo per gettarsi nel vuoto dell’assurdo: la benzinaia de La bellezza di Ippolita, l’algida fata del capolavoro Le avventure di Pinocchio, la tenebrosa pensionante di Mare matto fino allo stupefacente straniamento che sa trasmettere nell’inquietante La morte ha fatto l’uovo, dove gestisce un allevamento di polli.
Sono ruoli che non definiscono una maturazione artistica ma rifondano continuamente un monumento da picconare per farlo diventare altro da sé. Segnano anche il progressivo distacco da un cinema che sembra non appartenerle più e sembra intuire la reverente deriva grandguignol dei giovani rampanti sessantottini (pensiamo a come Dario Argento o Bernardo Bertolucci hanno recuperato Clara Calamai, Yvonne Sanson, Alida Valli; certo, un Baby Jane con Loren sarebbe stato gustoso…).
Comunque pazzesca e misconosciuta la collaborazione con John Huston, che colse bene il mistero di una bellezza troppo pronunciata per essere credibile nel folle Il mistero dell’Africa, così come Orson Welles ne spogliò l’immagine. Ma la diva non voleva si parlasse del rinnegato e nascosto Portrait of Gina, uno strano documentario televiso del 1958 che in America circolò (poco) anche con il più simbolico, allusivo, beffardo, maestoso dei titoli: Viva Italia. Mai titolo fu più calzante.