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William Friedkin e Linda Blair sul set de L'esorcista @Warner Bros.
Nella Nuova Hollywood dei primi anni '70, tra le sperimentazioni autoriali dei giovani Scorsese, De Palma e Spielberg, Il braccio violento della legge era un film con le idee molto chiare. I generi si tengono, la realtà decide come, l'io è un codice per leggere il mondo attuale. Popye l'investigatore razzista, Regan la posseduta di Satana, Steve l'infiltrato delirante, Aaron il soldato dei nostri peccati, lo sceriffo sicario Killer Joe sono sculture vive di un’istintiva, e poi ragionata, combinazione tra l'ossessione per il cinema e l'ossessione per la realtà. Attratto dal documentario e da Hitchcock, dalla cronaca nera e da Fritz Lang, dalla fiaba horror e da Polanski, dotato di un sensibile e raro gusto per l'autocritica, William Friedkin ha dovuto difendere la sua indipendenza dalle ideologie che tendevano a staccare etichette dove, invece, i suoi film illuminavano i nuovi linguaggi della violenza e della crisi di valori.
Ha almeno due primati nella storia del cinema, Friedkin: ha diretto un hit, che come certe canzoni sigilla una carriera e una biografia artistica con un vago sentore di postumo, nel caso un capofila del cinema della paura che, dopo Psycho e Gli uccelli, è tornato a fare paura davvero, essendo L'esorcista (1973) un estrattore equilibrato, per istinto tematico e per ragion formale, di immagini di delirio infantile perduranti nel subconscio adulto; ha diretto il primo film omosessuale di Hollywood, una commedia di apparente coralità che scalpella il legno di un umore superficiale e condiviso del vissuto gay, scoprendo una vera infelicità individuale che non ha giovato al successo del film, essendo Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970) un tentativo d'indagine culturale senza pietà, con gli eccessi del caso. Due film sul diavolo: Pazuzu e l'invertito. Pazuzu era, è, tremendo, il più bestiale e fruttuoso diavolo della storia del cinema (vale quasi 500 milioni di dollari e non si vede). Harold (e i suoi) è l'altro, il primo gay esposto, nel quotidiano di fragilità, nevrosi, promiscuità, senso di colpa, solitudine, frustrazioni, come era possibile a fine anni '60 nel sistema che Friedkin combatteva, ed era già un gesto di ribellione al regime (anche di linguaggio: la frenesia della cinepresa cerca accordi con il ritmo di una vitalità angosciosa).
Sul diavolo, cioè sulla devianza sepolta e svelata, sull'opposizione al conformismo, sul processo di indagine per suscitare la stortura che un potere nega, copre, rimuove, utilizza, al di là del giudizio, si gioca una filmografia tra i generi, thriller e horror, con una vitalità e un piacere, un vero senso del gioco, diciamo, che ricordano cineasti più giovani e freschi, in rincorsa, come Steven Spielberg. “Se dovessi pagare per fare il regista, lo farei. Se cambiassero tutte le regole e dicessero: 'Devi metterti in fila e pagare per farlo', sarei il primo di quella fila. Dirigere significa giocare, interpretare un ruolo”, così Friedkin citato in un bel libro di Daniela Catelli, uscito quando nessuno prefigurava di dare a Cesare quel che è di Cesare, come il Leone d'oro che gli ha consegnato la Mostra di Venezia 2013.
Forse Friedkin è diventato un asso della ripresa d'inseguimento d'auto perché Haward Hawks, un giorno, facendo a pezzi i suoi film, gli disse: la gente ama gli inseguimenti, buttati, ma fai il migliore che sia mai stato girato. La cosa che li rende speciali, sotto la metropolitana in Il braccio, la fuga in contromano in Vivere e morire a L.A. (1985), ma anche le sfide corpo a corpo nella natura di The Hunted (2003) e le sfide miste moto/corpo di Killer Joe (2012), è l'apertura temporanea di un luna park, originale, irripetibile (ci prova ribaltando i tempi Winding Refn), una giostra in cui il tour si alza a volo sopra le cause drammatiche, nelle mani di un giostraio che gode della dimensione ludica dell'azione, ma non ne perde ragioni e dinamiche. Il piacere del testo, nei suoi film, sta quasi sempre nell'equilibrio di una pianificazione estetica. Si discute la “tenuta” del detective di Cruising (1980), imputabile ad Al Pacino, che “ha avuto paura di distruggere la sua immagine di star con un personaggio troppo negativo” (Morandini), ma non è per niente un film deludente.
A riprova, l'analisi di Vivere e morire a L. A. ci porterebbe a comprendere il successo del faccia a faccia tra Peterson e Dafoe, secondo regole di labirinto scoperte man mano, proprio nella dimensione formale. Killer Joe, un ritratto dell'assurdo criminale contemporaneo, combina in un'opera il dualismo costante della filmografia di Friedkin, tra commedia del paradosso e dell'estravaganza (anche il burlesque di La notte che inventarono lo spogliarello) e thriller di conflitti machiavellici (anche Jade), rivelatori di storture sociali ed esistenziali alle radici della violenza, nel suo macabro spettacolo.