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Francesca Fialdini (foto di Monica Fagioli)
Una riflessione sulla propria professione a tutto tondo. Così Francesca Fialdini si è raccontata in piazza XX Settembre a Lecco. Un racconto iniziato dalle trasmissione di cui è conduttrice, Fame d’amore e Da noi… a ruota libera: “Credo che la differenza fra le mie trasmissioni sia legata al fatto che serve la leggerezza per affrontare le cose profonde e profondità per trattare le cose leggere. Io sono convinta che l’umanità si divida in tre categorie: lenze, sugheri e piombini. I piombini sono le persone che amano scendere in profondità, le lenze sono quelle che adescano gli altri pur di arrivare a qualcosa e poi ci sono i sugheri che galleggiano e si fanno portare in tutte le situazioni. Io mi definisco un piombino: vado sempre in profondità”.
Per esempio sul tema dell’approfondimento: “Stiamo facendo un lavoro importante con Fame d’amore: siamo stati i primi ad affrontare in Italia il tema dei disturbi alimentari quando negli Stati Uniti hanno iniziato negli anni ’90. Questo perché il tema del corpo disturba, solleva delle ferite emotive che anche in Rai avevano dei dubbi ad affrontare. Invece siamo riusciti ad andare oltre la narrazione ordinaria, quella che si focalizza unicamente sul rapporto fra la persona con il disturbo e la propria madre. Abbiamo portato l’attenzione sulla questione della figura paterna: esiste un uomo in grado di fare il padre? Soprattutto ci siamo dedicati al mondo dei social, un contesto cruciale per i ragazzi”.
La questione dei social è cruciale per Fialdini: “Smartphone e tablet finiscono troppo presto in mano ai nostri ragazzi. Servono delle regole, ma dobbiamo essere consapevoli che ci confrontiamo con una lobby gigantesca. Dobbiamo poi essere consapevoli che i social in realtà non fanno altro che amplificare ciò che esiste nella vita reale. Questa attenzione dei giovani per il mondo social tradisce la ricerca di un palcoscenico dove farsi vedere, dove sentirsi riconosciuti. Una ricerca che rischia di tradursi nella costruzione di relazioni fragili e lo sviluppo di personalità narcisiste e instabili. Questo mondo di emozioni sintetiche genera la paura delle emozioni vere, crea una dissociazione fra corpo e immagine sui social e la fuga dalla realtà perché troppo frustrante da affrontare. Una frattura antropologica fra generazioni. In tutto questo noi dobbiamo tornare a sentirci responsabili come società, dobbiamo assumerci le responsabilità”.
L’attività dei media non è esente da colpe: “Chi fa informazione dovrebbe saper diversificare la platea, avere il coraggio di andare nel profondo delle notizie, ma purtroppo funziona di più la morbosità, la superficialità. Non serve bramare il consenso fine a sé stesso: volere che tutti parlino bene di te. Io so di non piacere a tutti, ma desidero restare aderente ai fatti e lavorare senza pregiudizi e senza padroni. Bisogna parlare della follia, delle questioni irrisolte. Questa ricerca è anche alla base del cinema, di film come Psycho o Hysteria. La fobia e la follia. È ciò che ci rende imperfetti, è ciò che ci rende unici”.
Un po’ di follia è anche alla base dell’inizio della sua carriera: “Negli ultimi anni di università e da neolaureata frequentavo il sacro convento di Assisi come volontaria. Nell’occasione di una delle giornate ecumeniche, nel febbraio 2002, arrivò papa Giovanni Paolo II con tutta la sala stampa vaticana. In quell’occasione conobbi uno strettissimo collaboratore di Navarro Valls. Noi come giovani volontari gli proponemmo di aprire una pagina web e la sua risposta fu: ‘Se volete fare questo mestiere, fra venti giorni partiamo e andiamo con Giovanni Paolo II in Azerbaigian’. Io non avevo nemmeno il passaporto: il giorno dopo l’ho recuperato e a maggio sono partita”.