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Ferrari (01 distribution)
“Il biopic non serve a nulla” ha tuonato recentemente Christopher Nolan, stanco di vedere il suo Oppenheimer associato a un genere – che in realtà genere non è – che lui ritiene semplicemente “non utile”. Nolan lamenta la “visione molto riduttiva delle biografie post-freudiane” che attribuiscono le caratteristiche di una persona alla genetica. Meglio guardare alle convenzioni di altri generi popolari: “il Manhattan Project è raccontato come un film di rapina, le udienze rientrano nel dramma processuale. Un biopic non funziona sul piano drammatico: Lawrence d’Arabia non è un biopic ma un film d’avventura”.
Nolan è un grande ammiratore di Michael Mann: Il cavaliere oscuro è un dichiarato omaggio a Heat – La sfida, che Nolan considera il film definitivo del “cops and robbers genre” (diciamo il poliziesco urbano) ma anche un esempio di come il regista trascenda le etichette. Heat, infatti, è anche un heist movie, un mélo, un noir. Non è così assurdo immaginare che Mann condivida le parole di Nolan, perché Ferrari usa il chiavistello del biopic per scardinare due piani: da un lato, tramite una personalità storica, costituisce degli spaccati diacronici e sincronici del tessuto della vita italiana postbellica, senza mai celare il punto di vista forestiero; dall’altro, si appropria di una storia altrui per leggerla all’interno del suo universo, collocando il Drake nella galleria dei suoi maschi crepuscolari e dilaniati dal tempo che passa.
Ferrari si serve del tipico escamotage di raccontare una vita intera isolandone un pezzo preciso (pensiamo a The Queen, Lincoln, Jackie, Mank), in questo caso i giorni della primavera del 1957 che precedono e seguono la tragedia di Guidizzolo, durante lo svolgimento dell’ultima edizione della Mille Miglia.
Nell’Italia del dopoguerra, quella gara di granfondo in cui le auto delle scuderie più blasonate sfrecciavano nelle strade comunali, rappresentava un evento attesissimo dalla gente comune. Perciò quel momento è l’acme (emotivo) del film: la festa popolare si trasforma in una strage quando l’improvviso scoppio di uno pneumatico fece sbandare la Ferrari guidata dallo spagnolo Alfonso de Portago con lo statunitense Edmund Gurner Nelson fino a farla schiantare sul pubblico, provocando non solo la sua morte dei piloti ma anche di nove spettatori, tra cui cinque bambini. È un macigno nella vita di Enzo e Mann ruota e si sviluppa attorno a questo episodio funebre, facendo di Ferrari un racconto sulla morte, in cui il titano fragile è Saturno suo malgrado. E tutto accade dentro il biopic.
Ferrari è un period drama che, sì, ricostruisce un evento in particolare ma mette in scena anche il patriarcato nella società italiana (un marito fedifrago, con un figlio avuto dall’amante storica, convinto che il mondo sia all’oscuro). Di conseguenza è anche un film esotico: l’Italia è una cartolina eternata dalla sua rappresentazione filtrata dal cinema americano, in cui la filologia conta meno dell’evocazione.
Poi è un film di corse – qualcuno direbbe che lo è soprattutto – non solo perché sono i frammenti più stupefacenti ma per le analogie tra le vetture che corrono come i sentimenti dei personaggi, veloci perché tempo da perdere non ce n’è, anche se poi la vita chiede il conto e i ritratti delle lapidi fotografano quel che mai accadrà.
È ineluttabilmente un mélo, una variante di Storia di un matrimonio (sarà una suggestione per la presenza di Adam Driver), in cui due persone che si sono amate non riescono a fare altro che odiarsi perché il rancore ha soppiantato l’affetto, il dolore si mangia l’anima (il figlio della coppia, Dino, è morto prematuramente: “Non me l’hai salvato” rinfaccia la moglie). Come ogni storia italiana, è una storia di famiglia; come ogni storia di famiglia, è una storia di fantasmi; come ogni storia di fantasmi, è una storia disopravvissuti. Ferrari è puro Mann: nelle crepe si annidano le epifanie, le assenze rivelano bagliori di autenticità, il desiderio di sfidare la vita perde di fronte alla verità impenetrabile.