PHOTO
Fellini e Simenon, con profonda simpatia e sincera gratitudine
L’avvincente carteggio fra il regista Federico Fellini e lo scrittore Georges Simenon, raccolto da Adelphi come Carissimo Simenon Mon Cher Fellini, nasce con l’edizione del 1960 al Festival di Cannes: comincia il decennio che schiude il nostro presente, sono in lizza stelle del cinema, Bergman, Buñuel, Antonioni, Saura, Brook, Ray, Minnelli, davanti a una giuria altrettanto fantastica, dallo scrittore americano Henry Miller al nostro Diego Fabbri, presidente Simenon stesso.
Per dieci anni, dal 1945 al 1955, il padre del commissario Maigret ha vissuto fra Stati Uniti e Canada, sospettato come simpatizzante con i nazisti durante la guerra. Nel 1960 Simenon, di nuovo accettato in Francia, si batte perché la Palma d’Oro vada a La dolce vita di Federico Fellini. Ne nasce, più che un’amicizia, una reciproca ammirazione, sentimento raro fra artisti.
Simenon scrive a Fellini: “Ieri mi è capitata una di quelle cose che scaldano il cuore. Stavo leggendo l’intervista che ha rilasciato all’Express di Parigi. Alla quarta frase ero sbalordito e mi dicevo che le sue risposte erano esattamente le stesse che avrei dato io. Ritrovavo le mie idee, per quanto riguarda sia la creazione artistica che il modo di affrontare i vari problemi della vita. È sempre miracoloso scoprire di avere un fratello da qualche parte”.
Fellini replica: “Quante volte ho alzato la testa dal [suo] libro incredulo, sorpreso, colpito, quante volte con intima soddisfazione ho mormorato: “Ma anche io la penso così! Anche io mi comporto in questo modo col mio lavoro, con le donne, con gli altri!”… È come se un amico, un fratello più grande, più intelligente, più buono, generoso, umile e coraggioso di te, ma con gli stessi tuoi appetiti, le tue stesse ammaccature, curiosità, slanci, timidezze, indifferenze, fosse andato avanti nella vita a vivere per te gli anni a venire… avesse fatto ogni genere di esperienze per controllare che…si può campare, le cose funzionano… e dal traguardo di questa relativa certezza t’invitasse, placato e sorridente, ad avanzare…”.
Guardando Maigret, fosco film diretto da Patrice Leconte, con un gonfio, stanco, ansante Gerard Depardieu nella parte del commissario, vi sarà utile ripensare al cameratismo Fellini-Simenon, radicato nel loro umanesimo scettico, privo di derive ideologiche, pur così diffuse in Guerra Fredda. La dolce vita e l’epopea di Maigret condividono la disperazione in ogni salvifica utopia, psicoanalisi, marxismo, capitalismo, e rimettono al centro la persona, un uomo, una donna, con scelte, fragili, orgogliose, destinate spesso al naufragio.
Un’intera generazione di italiani ha immaginato Maigret come Gino Cervi, il popolare attore, già famoso per l’interpretazione del sindaco comunista Peppone dai film tratti dai libri di Giovanni Guareschi, che diede vita alla serie tv Rai (1964-1972), regia di Mario Landi, Diego Fabbri sceneggiatore, alla produzione Andrea Camilleri che assorbe temi per i futuri gialli, magnifica sigla di Luigi Tenco. Maigret ha avuto il volto di tantissimi attori, in Francia, Regno Unito, Irlanda, Austria, Germania, Italia, Olanda, Giappone, Russia, Cervi lo rese iroso, allegro, mercuriale, Depardieu è più fedele all’originale, noir, dispeptico, un filo depresso.
Quando chiedono a Maigret “Cosa pensa commissario?” su una certa indagine, lui replica sempre “Io non penso” limitandosi a giudicare dai fatti umani, messi in fila con pazienza e fatica, lo stile di Simenon e Fellini, viatico perfetto, nella sua umiltà, per capire questo nostro tempo turbolento.