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Rashomon (Webphoto)
Davanti ai massacri in Ucraina, perpetrati dalle forze armate del presidente Vladimir Putin, si levano voci, ignoranti, colte, snob o prezzolate, che chiedono “le prove!”, e quando queste vengono fornite, vedi strage nel sobborgo di Bucha, ribattono querule “Video taroccati, Satelliti deformanti, Morti che si muovono… Chi stabilisce la verità? Volete il Ministero della Verità di Orwell?”.
Povero George Orwell! Il suo romanzo 1984, pubblicato nel 1949, narra di un futuro totalitario, dove il “Minister of Truth”, ufficio del protagonista Winston Smith, è incaricato - come i trolls dei blog e dei talk show - di riscrivere la Storia, secondo il volere politico del leader Big Brother. Giusto nel 1984, il romanzo di Orwell diventa film, regista Michael Radford, attori John Hurt, come Smith, Suzanne Hamilton, nella parte di Julia, infelice amante di Winston, e Richard Burton, l’infido dirigente O’Brien, ultimo ruolo per il leggendario artista, scomparso poco dopo.
Libro o film, per Orwell il dilemma non ha dubbi, “Verità” è quel che il partito decide sia vero, come nei telegiornali 2022 di Mosca, dove i “giornalisti” clonano i comunicati di Putin e dei ministri Lavrov e Šojgu. E così i network della disinformazione nostrana incalzano, passando dai no vax, ai no greenpass, agli ok guerra di Putin. E dove sta, infine, la verità?
Il saggio Aristotele, nella Metafisica, (1011b25), propone questa definizione, a lungo considerata classica: “Dire di ciò che è che è, e di ciò che non è che non è, è Vero. Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è, che è, è Falso”. Se i russi si ritirano da Bucha occupata il 30 marzo, e i satelliti mostrano i poveri corpi delle loro vittime in via Yablonska già l’11 e il 20, Aristotele ci spiega come giudicare, meglio dei fact-checker. Non è il borioso Ministero della Verità a dirimere il grano del Vero dal loglio del Falso, è l’umile confronto con la realtà.
Al proconsole Pilato che chiede, da nichilista online, “Quid est veritas?” (Giovanni 18:38) Gesù premette la necessità di esser “testimone di verità”. Questo compito, semplice e costante, non lo dirime ancora Rashomon, 1950, di Akira Kurosawa, considerato il capolavoro dei film sul “vero”, con le opposte versioni sull’uccisione di un samurai, che in realtà, a soli cinque anni dalle atomiche sul Giappone, confessa dell’impotenza di una narrazione storica condivisa, dopo Hiroshima e Nagasaki.
È il regista polacco Krzysztof Kieślowski, in Destino cieco, 1987, ad offrirci una sceneggiatura “aristotelica”, con il protagonista Witek, interpretato da Bogusław Linda, che rincorre un treno alla stazione, nella Polonia comunista. Travolge un passante, fa cadere una birra, incontra un dirigente di partito, un militante dell’opposizione, la ex fidanzata Czuszka, sale sul vagone, non sale, viene premiato dal regime, condannato invece, in tre lunghi episodi a trame alterne. Muovendo dalla banale vita quotidiana, Kieślowski espone differenti “verità” di Witek, un passo solo a separarlo da tradimento, eroismo, successo, sconfitta, fino all’esito dell’esistenza.
C’è un dimenticato film bianco-nero del 1977, opera della regista russa Larisa Šepit’ko, scomparsa a soli 40 anni, L’ascesa, tratto dal romanzo Sotnikov di Vasil Bykaŭ, con i partigiani Sotnikov e Rybak in missione nella Bielorussia occupata dai nazisti. Rybak, audace, sprezzante, robusto sogna di far l’eroe e finirà tradendo, arruolato dai tedeschi. Sotnikov, gracile, febbricitante, incerto, cadrà senza cedere, tra le torture: sia Šepit’ko che Bykaŭ dissero di ispirarsi a Gesù per Sotnikov, non eroe ma testimone, quel che serve ancor oggi.