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Il grande uno rosso (Webphoto)
Samuel Fuller, regista americano dell’epico film Il grande uno rosso (The Big Red One), 1980, con il duro Lee Marvin, aveva le idee chiare su che cosa servisse per offrire agli spettatori l’esperienza diretta della guerra: “Semplice – diceva – basta piazzare una mitragliatrice dietro lo schermo e aprire il fuoco contro la platea”. Fuller (1912-1997) conosceva la guerra, aveva combattuto in fanteria nel XVI Reggimento della I Divisione, sbarcando in Africa, Sicilia e Normandia, liberando il lager di Falkenau, dove girò qualche sequenza in 16 mm, e venendo decorato con due medaglie e il Purple Heart, onorificenza riservata dall’esercito Usa a chi viene ferito in battaglia.
Fuller aveva ragione, la guerra ha una sua unica ferocia, “la brutale verità della guerra” la definiva lo scrittore sovietico Vasilij Grossman, di cui ora Adelphi traduce il classico romanzo Stalingrado, prequel di Vita e destino, le due cronache tragiche della maggiore battaglia, finora, della storia umana, dall’estate 1942 all’inverno 1943. Come i nostri genitori e nonni, siamo tornati a occuparci di guerra, dunque, con l’invasione dell’Ucraina del presidente Volodymyr Zelensky da parte della Russia del presidente Vladimir Putin.
Ma, senza leva obbligatoria e con l’Europa in pace dal 1945, il cinema è, per tanti, la sola esperienza bellica, pur mediata da immagini magari violente, crude, come quelle che Spielberg lancia in apertura de Salvate il soldato Ryan. A ben guardare, il cliché che i talk show vi ripetono esangui dalle tv, “niente guerra in Europa dal 1945” è una bubbola, i portoghesi han combattuto a lungo in Africa nelle loro colonie, come gli inglesi in Malesia, Suez e contro l’Argentina per le isole Malvine, i francesi in Vietnam e Algeria, i paesi Nato in Jugoslavia, tanti, Italia e Germania inclusi, nella prima guerra in Iraq, gli inglesi nella seconda, i greci a Cipro contro i turchi nel ‘74, mentre cecoslovacchi, ungheresi e tedeschi dell’Est vedevano le loro insurrezioni represse dai carri di Mosca in strada.
Per tanti anni di presunta “pace assoluta” un record davvero sanguinoso, senza citare il terrorismo politico, e capire perché lo abbiamo dimenticato in fretta spiega bene il nostro stato d’animo davanti alla devastazione contro l’Ucraina europea, cristiana, da sempre vicina a noi. Se chiedete a Rotten Tomatoes quale sia il miglior film di guerra della storia, vi indica Casablanca, romantico feuilleton con Bogart e Bergman, dove la guerra è assente e l’amore conta quanto le armi, Venere contro Marte.
Lo storico americano Paul Fussell, che aveva combattuto ed era stato ferito, mi disse invece una volta: “In prima linea la maturazione della recluta è semplice, arriva e si dice ‘non posso essere colpito, sono troppo amato, sono speciale, mica come gli altri’; dopo un po’ vede che tanti son feriti e muoiono e allora pensa ‘li han presi perché non stavano attenti, a me non capiterà’; infine quando vede cadere i migliori comprende la verità: ‘Se non torno a casa prima, toccherà anche a me’”.
Coppola coglie la “feroce brutalità della guerra” in Apocalypse Now, “l’orrore, l’orrore” delle parole finali di Brando-Kurtz, mutuate dal romanzo di Conrad, Cuore di tenebra. La guerra non è mai favola a lieto fine, con una morale edificante, è orrore: abbiamo disimparato a pensarla per la fortuna che la storia ci ha riservato, delegando ad altri, americani, militari, professionisti, l’impegno di vivere in armi. Ora torna a bussare alle nostre porte e ci trova queruli, petulanti, ignoranti mentre la battuta di Fuller riecheggia, dura, saggia, presaga.